Ascesa e caduta dell’uomo che inventò le boy band!!
Dopo il documentario di qualche anno fa di Lance Bass, anche questa mini serie di tre puntate, targata Netflix, racconta la storia di Lou Pearlman, l’uomo che dal nulla negli anni ’90 inventò il fenomeno delle boy band. Ci svincoliamo dalle critiche di chi afferma che Netflix abbia quasi copiato lo stile di Bass e vi raccontiamo le nostre impressioni su “Dirty Pop”.
La storia di Pearlman, cugino di Art Gartfunkel (si proprio lui!!), inizia molto prima di quel periodo patinato. Già negli anni ’70 Lou si dimostra ambizioso e votato alla ricchezza, è uomo di affari, fiuta il denaro, riesce a moltiplicarlo, prima con una compagnia di dirigibili, poi di aerei, con i quali entra in contatto con il jet set della musica e non solo, costruendosi un nome, con cui si avvicina alle banche con un’immagine di persona vincente, conquistandosi la fiducia di tutti. Anche davanti a sconfitte e momenti difficili, Lou appare davanti ai giornalisti e in televisione sorridente, ostentando sicurezza, al punto da far mettere in discussione agli interlocutori le critiche sul suo conto.
In questo modo ottiene prestiti, convince amici e ricchi ad investire in fondi che nessuno conosce, ma la sua faccia bonaria e il suo fare persuasivo, non a caso nel giro lo chiamano affettuosamente “Big Poppa”, sono una garanzia e così, nonostante le chiacchiere di collusione con leoni senza scrupoli di Wall Street e di avere agganci con la mafia, in molti gli consegnano risparmi e denaro, finendo poi in rovina, al punto che qualcuno si suicida ed altri cercano inutili vie legali per riavere il denaro.
Quando arrivano le boy band, Pearlman è da tempo un personaggio con zone d’ombra, ma sarà proprio questo fenomeno musicale a consegnargli una popolarità mondiale, allentando la morsa del sospetto sui suoi affari. L’ispirazione delle boy band gli arriva guardando il successo dei New Kids On The Block. E così l’idea nasce spontanea con un annuncio sul giornale, l’Orlando Sentinel: “Cerco bei ragazzi, intonati e capaci di ballare”. Si presentano in migliaia e dopo una prima selezione nascono Backstreet Boys, seguiranno i NSYNC di un adolescente Justin Timberlake, gli O’ Town, Natural, US5, le Innosense, dove era transitata anche Britney Spears oltre ad altri gruppi meno fortunati.
Le band le costruiva Lou con logiche commerciali, costringendo amicizie a rompersi, facendo nascere convivenze forzate, ecco spiegato il motivo di tanti litigi e ripicche tra i protagonisti. Come dire: non sempre il denaro e la fama possono cementare le relazioni. Denaro, si scoprirà, diviso in parti diseguali, perché Pearlman nei contratti si assegna sempre il ruolo di musicista in ogni band, con una percentuale maggiore dei cantanti stessi.
La serie assembla dichiarazioni vere del Pearlman del passato con alcuni inserti postumi, aggiunti grazie alla tecnologia, ma comunque documentati, con molti racconti contemporanei di musicisti, amici, parenti, collaboratori e giornalisti. Il puzzle ci consegna Lou come una figura apparentemente paterna e protettiva, ma con un lato oscuro, dominato dall’avidità per il denaro, vicino alla malavita e capace di negare l’evidenza delle sue truffe anche dinanzi al fatto compiuto. Fiumi di denaro generato da uno schema Ponzi che, si calcola, abbia generato oltre 300 milioni di dollari, poi spariti nel nulla. Quello che colpisce, a parte il senso di colpa o la rabbia delle vittime, è lo stupore emotivo che ha generato in tutti coloro che lo amavano, infatti scoprire di essere stati traditi da una persona che li aveva accolti come se fosse un padre o un fratello, è stato un dolore per tutti i protagonisti della storia, più grande del denaro perso in investimenti fasulli.
Naturalmente il castello di menzogne alla fine crolla e grazie alle fitte indagini dell’FBI, Pearlman finisce in prigione, dove continua a fingersi sbalordito perché, afferma, di aver sempre agito per il bene delle persone e che qualche volta ha solo avuto sfortuna nella gestione del denaro.
“Dirty pop” (guarda il trailer nel link) è un documentario, forse non sempre lineare nei salti temporali, tuttavia è fatto bene, con un buon ritmo, e merita di essere visto, indipendentemente dal vostro gusto musicale, è infatti un’occasione per comprendere come si muovono alcuni meccanismi, perversi, del business.
Cosa posso aggiungere? Che il fenomeno delle boy band fosse costruito a tavolino lo sapevamo tutti, ma qui emerge altro, scopriamo che gli artisti sono preparati, suonano e cantano molto meglio di quello che ci hanno offerto i videoclip e il battage promozionale azionato intorno, e non a caso non sono pochi i protagonisti di quel fenomeno che hanno continuato la carriera come musicisti, ma anche produttori, talent scout ed altro. Ma, come dice uno dei NSYNC, se sei un ragazzino e la persona che ammiri e che ti guida dice “Tu fai questo”, inevitabilmente lo ascolti e lo fai. Non è stato facile per molti di quei ragazzi diventare uomini, anche perché i soldi finiscono e nella giostra delle mode che vanno e vengono, di te ben presto non si ricorda più nessuno.
Postilla finale: chapeau a Michael Johnson dei Natural che nelle interviste sfoggia alle spalle una parete gigantesca di vinili. Quasi come la mia!