Bruce Dickinson è probabilmente il più grande cantante heavy metal della storia. O almeno se la gioca, con modalità diverse, con Rob Halford dei Judas Priest. Non si tratta solo di voce e tecnica, ma di ciò che ha lasciato nel tempo, l’influenza che ha avuto su centinaia di eredi e quel modo nervoso e garibaldino di stare sul palco che ha fatto scuola. E poi c’è tutto l‘immaginario dei testi negli Iron Maiden, quando Steve Harris gli ha permesso intrusioni.

Parallelamente ha creato un avatar capace di pilotare aerei, eccellere nella scherma, scrivere libri e sceneggiature e, non ultimo, costruire una carriera solista di tutto rispetto. Carriera che riparte con questo album, il settimo, a quasi due decenni dal precedente “Tyranny Of Souls”. Qualcuno su Facebook ha scritto che non sentivamo la mancanza del Dickinson solista, ma dopo aver ascoltato con attenzione “The Mandrake Project”, posso garantire che queste dieci tracce smentiscono il coraggioso fan che si è esposto sui social.

A 65 anni Bruce Dickinson guarda ancora al futuro e si conferma un gigante dell’heavy metal.

Non serve fare una carrellata di descrizioni, il disco è ricco di sostanza, la voce di Bruce, pur incrostata dal tempo, è ancora capace di emozionare, penso all’epica “Fingers In The Wounds” con un bel lavoro di tastiere o “Eternity Has Failed” che rievoca certi Maiden di “Powerslave”, come “Rain On The Graves”, anche se la produzione è più levigata. L’apertura di “Afterglow Of Ragnarok” ruggisce con chitarre più moderne rispetto al resto dell’album e Bruce interpreta con maggior rabbia e mette in chiaro subito che non è un disco fatto per tamponare un momento di inattività, ma c’è la volontà di offrire qualcosa di importante. Lo ribadiscono “Many Doors To Hell”, dove nel riff rotondo duellano chitarra e tastiere. “Resurrection Men” è una sorpresa: atmosfere quasi western sempre in chiave metal, che Bruce risolve da par suo, con un’esposizione solida ed evocativa. Il trittico finale è tutto da ascoltare, si passa dal metal alla ballata per piano e voce, che poi scrive nuove regole!!

L’aver condiviso la scrittura, con il collaboratore storico, il chitarrista e co-produttore Roy Z, è sinonimo di garanzia. Se poi aggiungete che Bruce si è impegnato dieci anni per realizzare questa opera, sorta di concept, viaggio interiore e molto altro, capite che non siamo davanti ad un semplice album musicale, ma all’itinerario emotivo di un grandissimo artista che ha sentito la necessità di guardarsi dentro, prendendo ispirazione dai suoi interessi, letteratura e poesia, e da questione filosofiche, lo scorrere del tempo, la morte  e il significato che ha il tempo stesso in correlazione alla fine della vita. Ma i temi affrontati sono tanti e un plauso la merita anche la parte grafica, con tanto di fumetto nell’edizione limitata.

A conti fatti, c’era bisogno di un disco di Bruce Dickinson? Non ho la necessità di trovare una risposta, è tutto nel coro killer di “Mistress Of Mercy”.

Possiamo scolpirlo ovunque: a 65 anni Bruce Dickinson guarda ancora al futuro e si conferma un gigante del metal e del rock.