Frank Thomas Hopper, l’hard blues ha un interprete moderno!

Tra sterile manierismo e rivendicazione di quale debba essere il “giusto” grado di revivalismo, può succedere, e per fortuna accade ancora, che una nuova uscita discografica, di un autore che non conosci, possa destare la tua attenzione riconciliandoti con ciò che rimane del classic rock al netto di qualisiasi definizione dello stesso.

In poche parole finalmente lasci perdere le ennesime chiacchere sui Greta Van Fleet o sui prossimi eredi dei Rival Sons e ti lasci trasportare dalla qualità contenuta nei “solchi” di “Bloodstone”.

Dalle note biografiche si può evincere che l’autore è belga, ma cresciuto in Sud Africa, e, a parte un ep nel 2015, è al debutto sulla lunga distanza.

Da ciò che possiamo ascoltare il rischio che nella classifica di fine anno possa finire nella personale top 10 è alto, grazie ad una produzione moderna ed efficace che cesella melodie vincenti fin dal primo ascolto, con plauso in particolare ai riff facilmente memorizzabili senza essere banali.

In generale si respira un’energia ed una freschezza contagiosa che permangono fino all’ultimo dei circa 45 minuti d’ascolto.

Il connubio tra la sopracitata produzione e la qualità intrinseca delle canzoni renderà felice tutti coloro che godranno nel sentire reminiscenze del giovane Robert Plant senza stantie riproposizioni zeppeliane, nel gustoso mix tra sensibilità europea ed americana, con richiami al “modernismo vintage” dei pluripremiati Black Keys, con il blues sempre presente ma virato alla sensibilità odierna.

Il giusto bilanciamento tra ricordi di ciò che fu il rock e ciò che potrebbe essere, rende “Bloodstone” un album adatto anche ad un pubblico che non sia a caccia dell’ennesima ristampa ricco di foto ed inediti inutili, senza che qualcuno ci ricordi per l’ennesima volta che il rock è morto (?).