Uno sguardo nuovo ci permette di cogliere anche nell’imperfezione la bellezza. Anzi l’imperfezione stessa è bellezza!!

Non mi sono mai piaciute le auto tirate a lucido, i grattacieli rivestiti di vetrate, le luci violentemente omogenee nella loro freddezza, le persone dai modi impeccabili, le musiche senza la minima sbavatura, gli accostamenti di colori definiti e ben equilibrati, le storie raccontate con stile rifinito, gli arredi che rinunciano alla personalità in favore della funzionalità e insomma tutte le cose belle e perfette che ti fanno sentire la persona giusta al posto giusto. Ho sempre cercato invece uno strappo, un difetto, un’ammaccatura, quell’accenno di ruggine che mi desse la sensazione del passare del tempo, che mi avvicinasse a un oggetto potendolo percepire come simile a me, imperfetto, come inesorabilmente imperfetto è ogni essere umano.

E ho sempre evitato chi invece, fingendo di non essere umano, spacciava saggezza e perfezione, magari pure rompendo i coglioni. Qualche anno fa, seguendo un consiglio di lettura di Piero Dorfles, giornalista co-conduttore delle ultime edizioni di Per un pugno di libri, in onda su Rai3, ho comprato un interessante libro di Roberto Peregalli, I luoghi e la polvere, di cui ho preso in prestito il sottotitolo per dare un’intestazione a questo articolo. Piccola digressione: penso che in un Paese con tre reti nazionali in cui si metta in onda un’unica trasmissione rilevante sui libri, della durata di un’ora scarsa, ci sia una chiara volontà verso l’ignoranza culturale, resa peraltro ancora più manifesta dal fatto che a un certo punto la trasmissione è stata spostata dalla domenica pomeriggio al sabato pomeriggio, cioè quando non la guarda nessuno. Fine della digressione. I luoghi e la polvere, dunque: polvere significa tempo, passare del tempo, quindi storia, e la storia siamo noi e quello che realizziamo e costruiamo; ma polvere significa anche nostalgia e ricordo, e in un certo senso sbarazzarsi della polvere, della patina del tempo per un mal digerito slancio verso il futuro è un po’ come annullare il proprio destino, come togliere lo sgabello da sotto i piedi dell’uomo col cappio al collo.

Peregalli è un architetto (ma laureato in filosofia) e alcuni capitoli del suo libro sono costruiti – con uno stile molto comprensibile e non elitario come ci si aspetterebbe dalla materia – su esempi architettonici, quindi ristrutturazioni, grandi opere di nomi famosi come in effetti se ne vedono sempre di più in tutte le città del mondo negli ultimi decenni. Ma parla anche dei vecchi casali abbandonati in mezzo a distese di campi, di ruderi testimoni di civiltà e guerre, di vetri resi opachi dalle intemperie attraverso i quali fin da bambino chiunque ha amato fare le prime esplorazioni. Facciate di palazzi intaccate dal tempo, spesso perdono tutto il loro fascino dopo ripuliture drastiche che annullano ombre e chiaroscuri; piccole finestre che proiettavano giochi di luce all’interno degli ambienti vengono sostituite da immense vetrate che riversano una luce accecante e che fanno dimenticare il fresco delle zone d’ombra, così prezioso d’estate. Ma ormai superato, riprodotto da moderni condizionatori, che rinfrescano spazi bianchi e asettici. Quindi si sta anche perdendo il rapporto degli edifici con le stagioni a cui l’uomo ancora, in qualche modo, conforma la propria vita; che importa, ormai secondo il luogo comune ne sono rimaste solo due. Il “degrado” è diventato peggio del peccato originale, è l’orrore, la vergogna da cancellare, solo perché è il segno dell’incapacità delle amministrazioni pubbliche di prendersi cura della storia della propria città. Questa vergogna si cancella radendo al suolo e ricostruendo, perdendo per sempre le storie custodite da contenitori ormai economicamente non fruttuosi. Fortunatamente da un po’ di tempo c’è anche qualcuno, per esempio i fotografi, che si è reso conto che certe cose non torneranno più, e che quindi bisogna guardarle con un punto di vista diverso, che renda la solitudine, il silenzio, l’abbandono e la patina del tempo dei valori positivi. Insomma, un libro che parla allo spirito, ma anche a chi vuole di più, vuole esempi, dati, storia. Un libro che mi ha fatto venire in mente altre cose, che poco hanno a che fare con l’architettura.

Per esempio che “ripassare” un tatuaggio è quasi come cancellare tutto il tempo che è passato su quell’inchiostro, anni di sole vento pioggia sudore lacrime amori odi  incontri e scontri, nel nome di una adeguatezza estetica. Ancora di più, penso alla relativamente recente moda delle chitarre relics (ci sarebbe anche il termine italianizzato ma perdonatemi se non riesco a scriverlo, che mi fa venire la pelle d’oca), cioè chitarre nuove ma scrostate, arrugginite, ossidate ad arte per sembrare vere e proprie reduci di mille battaglie sul palco. Costano un botto di soldi, perché è ovvio che non è così semplice sostituirsi al lavoro del tempo e nemmeno alla sincerità del rochenroll, però vi giuro che c’è gente che spende tipo cinque-seimila euro per una chitarra che vuole sembrare uscita dai gironi infernali dei live degli Who e che poi se le fa per sbaglio un graffietto vorrebbe suicidarsi gettandosi sotto uno schiacciasassi. Ma perché? Certo, perché costa seimila euro…

Ma se invece si comprasse una chitarra normale, a un prezzo normale, e poi, – concerto dopo concerto, a forza di altro sudore, botte, cadute, birra, sputi, lanci di bottiglie, insomma tutte le disavventure che possono succedere a una chitarra su un palco – dopo tanti anni di musica avesse uno strumento vissuto ed esteticamente imperfetto, da mostrare con orgoglio, perché quella chitarra è la storia del chitarrista che la suona, non sarebbe meglio?

Le foto dell’articolo sono di Frederic Auer