Qualche tempo fa, durante una ricerca di libri per la mia biblioteca musicale, mi è capitato tra le mani un volume autopubblicato da tale Daniela Santerini, Choi-oi! – L’incredibile avventura delle Stars nel Vietnam del 1968. Il titolo mi diceva poco, ma ciò che ha attirato la mia curiosità e me lo ha fatto sfogliare è stata l’immagine della copertina, il disegno di una band di cinque ragazze, Le Stars appunto. Ancora più curiosità ha provocato l’apparente contraddizione tra l’anno citato in copertina, 1968, e l’argomento, un gruppo musicale di sole donne: ma come, una band femminile, italiana, nel 1968?

E così ho conosciuto questa piccola storia – piccola, ma veramente incredibile, come recita la copertina – della musica italiana.

Le Stars si formano sulla fine degli anni ’60, fortemente appoggiate da un impresario locale, che dà una mano a raggiungere la formazione completa. Sì, allora funzionava così, c’erano i cosiddetti “impresari” che in qualche modo erano parte delle band, partecipavano e contribuivano finanziariamente (!!!) alle attività, organizzavano concerti e tour. Era un periodo in cui le band pop italiane cominciavano ad avere un certo successo, nonostante che in linea di massima questo successo provenisse quasi esclusivamente da cover inglesi o americane tradotte in italiano. Quindi le ragazze pensarono di mettere su una cosa del genere, ma al femminile. Una scelta doppiamente coraggiosa, per quei tempi, soprattutto perché in Italia mancava quasi completamente quel tipo di esperienza. Anche loro non avevano un repertorio originale, ma proponevano brani famosi di soul e rhythm’n’blues. Gli inizi sono stati difficili, anche perché un paio di loro non avevano mai visto uno strumento, e hanno dovuto imparare strada facendo, il che fa pensare che questo impresario avesse in qualche modo puntato coscientemente sull’immagine tutta femminile della band. Ma le ragazze erano tutt’altro che pantere da palco: timide, giovanissime (solo una di loro era maggiorenne), praticamente ignare di tutti gli sconvolgimenti in atto attorno a loro (contestazioni studentesche, clima politico instabile, guerra del Vietnam), nonostante la città in cui operavano, Piombino, fosse storicamente un caposaldo della sinistra più proletaria e combattiva. Insomma dopo un po’ di concerti in giro per l’Italia, arriva l’occasione per un salto di qualità: un contratto per una tournée in estremo oriente, che anche ai giorni nostri sembrerebbe quasi fantascienza. Il contratto parla di Hong Kong, Filippine, Vietnam, Giappone e le ragazze (famiglie comprese) si affidano completamente alla gestione dell’impresario; il quale però, consapevolmente o meno, non nota che il documento firmato dice che i concerti avverranno non in tutti questi posti, ma in uno tra questi posti.

E così Le Stars scoprono all’aeroporto di destinazione che la loro unica, terribile meta finale è Saigon; è una doccia fredda, anzi peggio, un pugno nello stomaco, perché di colpo si ritrovano in mezzo a edifici in fiamme, bombardamenti, campi militari, soldati agonizzanti e feriti nei modi più atroci, e bare, tantissime bare allineate pronte per tornare negli Stati Uniti.

Sono terrorizzate, piano piano capiscono che è la loro stessa vita a essere in pericolo, tanto come quella di questi giovani americani che – pur soldati – nei momenti in cui cala la tensione degli scontri piangono disperati, invocano la madre lontana, soffocati nelle notti di afa tropicale.

Eppure c’è un contratto da rispettare, l’impresario le sprona, e loro – contro ogni razionale reazione – si affidano alla passione per la musica, oltre che a un’inaspettata forza d’animo. E, incredibilmente, per ben tre mesi vengono sballottate tra retrovie e prima linea, fango, sangue, fumo, napalm, disperazione, prigionieri maltrattati, massacri, sporcizia, fame. Ecco, quando rivedrò quella scena di Apocalypse Now in cui le conigliette di Playboy ballano davanti ai soldati per poi essere precipitosamente portate via in elicottero sotto le bombe, penserò a queste cinque ragazzine che non erano in un film, ma in un vero incubo, e che come i più esperti musicisti professionisti sono riuscite a gestire una situazione irreale (ma quanto reale!) che nemmeno il rocker più coriaceo avrebbe sopportato per più di due giorni. Senza contare che, nel 1968, di rocker ancora non ce n’erano poi molti.

Dovevano sembrare così spaventate, fuori contesto, impreparate, che ovunque andavano scatenavano nei soldati un sentimento di protezione e condivisione; ogni volta che ripartivano, dopo  un programma pesantissimo che prevedeva fino a quattro concerti giornalieri nei vari campi, era come se le mascotte del reparto se ne andassero, portandosi via quel poco di luce, freschezza, aria di casa, di famiglia, di mamma, che tanto mancava in quella babilonia di fango e sangue.

Alla fine, dopo tre mesi, tornarono a casa: una di loro si era gravemente ammalata di polmonite, e questo affrettò il rientro. Contentissime di lasciare quel caos terribile; eppure gli schiaffi della durissima esperienza avevano lasciato segni profondi, e qualche nostalgia.

A questo punto uno potrebbe pensare che all’aeroporto in Italia sarebbero state accolte da qualche giornalista, o qualche generalone della NATO, perlomeno una delegazione di concittadini che le riabbracciasse con affetto e calore. Invece no.

Anzi, la pesantezza ideologica di quel periodo e il clima sociale della loro zona, Livorno-Piombino, portò a una ancor più grande distorsione: furono accusate di essere state dalla parte degli invasori americani, di non aver supportato la causa dei vietcong ma piuttosto quella degli Stati Uniti; nelle sedi locali del partito furono inscenati grotteschi colloqui e veri e propri processi in stile maoista.

Una vera violenza: non ci voleva molto a capire che quattro ragazzine minorenni e una appena maggiorenne, innamorate del soul, completamente inesperte di vita e ignare del momento storico cruciale, non avevano alcuna possibilità di gestire la situazione, una volta ritrovatisi in quell’inferno.

Queste pressioni le spinsero a scegliere il silenzio, forse perché anche i ricordi bruciavano tanto, come una ferita da napalm che non si rimargina mai, e questa storia sarebbe rimasta sepolta sotto le macerie ideologiche e politiche del passato se un giorno non fosse saltato fuori il diario di Daniela Santerini, “organista” delle Stars, poi diventato un libro, e ancor più recentemente il bellissimo docu-film a loro dedicato, Arrivederci Saigon (2018) di Wilma Labate.

Non posso non ricordare i loro nomi: Daniela Santerini, tastiere; Rossella Canaccini, voce (l’unica che poi tentò una brevissima carriera nella canzone italiana); Viviana Tacchella, chitarra; Franca Deni, basso; Manuela Bernardeschi, batteria.

Grazie ragazze, siete state incredibili, siete le migliori.