Due premesse: la prima, doverosa, è che chiedo venia al mio amico Francesco per aver colto con ritardo il suo suggerimento di approfondire la band in oggetto; la seconda è che con loro inauguro la chart degli album del 2023 che, per vari motivi, ho immeritatamente escluso da quella pubblicata poche settimane fa.

I Vulture Industries provengono dalla terra dei fiordi, dove sono nati nel 2003 dalle ceneri dei Dead Rose Garden, già esistenti da un quinquennio, ma senza discografia alle spalle.

I territori che hanno scelto di esplorare con la loro musica sono quelli di un rock d’avanguardia infarcito di elementi hard, dark e anche prog, per un risultato sonoro centrato e multiforme, cui si aggiunga un aspetto non banale: la ottima capacità di tradurre le loro idee ispirate e variegate in forma canzone.

In questi anni di carriera hanno prodotto cinque album con una qualità sempre crescente, toccando vertici importanti con gli ultimi tre: “Tower” (2013), “Stranger times” (2017) e, soprattutto, il nuovo “Ghosts from the past”, uscito nel corso del 2023.

L’aspetto che più mi colpisce è che, durante l’ascolto, la mente porta a galla rimandi alle più svariate influenze, dai conterranei Arcturus, per transitare dai Damned più gotici, fino ad arrivare ad alcuni spunti vicini ai Devil Doll, ma alla fine la sensazione è quella di molta originalità.

È doverosa una menzione a parte per le parti vocali di Bjornar Erevik Nilsen: variegate, espressive, affascinanti,… come fossero un caleidoscopio dove a turno gravitano spunti che ricordano ugole di mostri sacri.

L’inizio dell’album è affidato a due brani d’impatto: il primo, “New lords of light”, è il classico singolo costituito da ritmiche dinamiche di matrice hard rock su cui poggiano ambientazioni gotiche e linee vocali che ricordano gli ultimi Borknagar, con l’aggiunta di un ottimo l’assolo; il secondo, “Saturn devouring his young”, è caratterizzato da un riff roccioso e le liriche cambiano tonalità viaggiando sui sentieri cari a Ian Astbury (The Cult), Dave Vanian (The Damned) e Nick Cave.

A questo punto entrano in gioco anche i fiati, suonati da Hans Mavins Andersen, che vanno a caratterizzare i due pezzi successivi: “This hell his mine” è un brano intimo, fascinoso e oscuro dove una tromba con spunti da film western è coerente con le linee vocali che assumono toni ispirati a Johnny Cash e ancora Cave; tromba ancora protagonista in “Deeper”, altro singolo che in un mondo giusto dovrebbe essere trasmesso ovunque per un refrain tanto vincente quanto non banale.

https://www.youtube.com/watch?v=zSz3BIUrjT4&ab_channel=DARKESSENCERECORDS

La sequenza di brani super prosegue con “Right here in the dark” dove le chitarre si impongono sia nelle parti ritmiche sia in quelle melodiche regalando spunti e assoli pregevoli su cui sia stagliano le liriche ancora alla Astbury/Vanian/Cave.

“Not by blood, bur by swords” è attuale a partire dal titolo e si esprime spegnendo la luce e muovendosi nell’oscurità, regalando un brano intimo in cui la voce assume un’aurea maestosa e al contempo luciferina, come se si fossero dati appuntamento Eric Clayton (Saviour Machine) e Mr. Doctor (Devil Doll).

Dopo tanta grazia ci si potrebbe sentire appagati, ma la band ci sorprende ancora con i nove minuti di “Tyrants weep alone” che inizia con i connotati della ballata per poi evolversi sulle vie del progressive dove la band fornisce una prestazione totale, comprensiva di uno splendido sassofono, e ancora le mille sfaccettature delle linee vocali offrono emozioni a non finire.

Band:

Tor Helge Gjengedal – batteria e percussioni

Kyrre Teigen – basso, cori e tastiere (“Not by blood, but by words”)

Øyvind Madsen – chitarre

Helvind Huse – chitarre e cori

Bjørnar Erevik Nilsen – voce, chitarre, tastiere e percussioni

Ospiti:

Hans Mavins Andersen – tromba e sassofono

Ine Terese Hogstad – voce femminile (“Tyrants weep alone”)