Che Robert Plant abbia un rapporto con Milano è indiscusso: ancora oggi si ricorda di quel lontano 5 luglio del 1971 quando i Led Zeppelin suonarono il loro primo ed unico concerto in Italia. Durò una ventina di minuti poi i lacrimogeni della polizia li costrinsero a fermare la performance. Gli studenti che dimostravano per avere libero accesso ai concerti senza dover pagare – chissà cosa ne pensava il “buon” Peter Grant a riguardo – avevano fatto breccia facendo diventare il concerto un vero campo di battaglia. Quella sera gran parte della strumentazione della band fu rubata e i Led Zeppelin non tornarono più in Italia.
“Ma che è successo nel 1970… ve lo ricordate? Di sicuro oggi c’è meno fumo” così scherza Robert, fresco dei suoi 75 anni appena compiuti. Nelle quasi due ore di concerto lo vedremo scherzare più volte così come accennare qualche passo di danza e persino una strofa di “Black Dog” salvo poi ridere come per dire: “ma cosa mi viene in mente di cantare”. Robert Plant è “vivo” e vuole vivere questo tempo, quello in cui, citandolo: “certe cose non si possono fare più, ma se ne possono fare altre, anche mai fatte finora e cosa c’è di meglio di stare su un palco, suonare la musica che ti piace e che ti ha ispirato fin dalla giovinezza?”. Niente caro Robert, hai già vinto in partenza dicendo così e “semplicemente” invitando ad ascoltare le canzoni che compongono il set, senza preoccuparsi di vendere poi un CD o una maglietta – non c’è merchandise ufficiale – trovando un equilibrio tra presente e passato pressoché perfetto.
Sarei un bugiardo se alle prime note di “Friends” non dicessi che ho avvertito un groppo in gola e che mi sono scese un bel po’ di lacrime, ma la commozione vera e costante è nel vedere Plant a suo agio circondato da una band che non è composta da incredibili professionisti americani che sì offrivano una sicurezza musicale incredibile ma tendevano, almeno alle mie orecchie, a frenare quella forza fanciullesca che ho imparato a riconoscere negli anni – perché dal 1990 in poi ho visto un bel po’ di volte il nostro “Percy” – che rende Robert Plant il cantante che è. Vederlo guardare la cantante – la bravissima Suzi Dan – per cercare la sua complicità e il suo “ok” a osare un acuto in più, è stato per me emozionante. Suonare insieme, cercare costantemente un legame con il resto della band, che sia un’occhiata o un sorriso, questo è quello che rende una band una “vera” band. Sono abbastanza fortunato da poter vivere in prima persona questo tipo di emozioni – cantare con i Tygers of Pan Tang regala queste gioie – ma sono sempre più spesso circondato da esempi di band tecnicamente ineccepibili ma nelle quali non c’è alcun segno di umanità. Frank Zappa l’aveva e questo non sminuiva la componente tecnica delle sue performance. Il “problema” è che non la si ricerca più, perché suonare dal vivo non è cogliere l’attimo, ma è pensare ai video su YouTube e all’imbarazzo se qualcuno percepisce un errore. A me l’errore non solo non interessa, ma piace. Tantissimo.
“Il leone che ruggisce” così lo presenta Suzi. E lui ride, ma dentro di se sa che è sempre quel leone che in Danimarca nel 1969 ha cantato “Dazed And Confused” creando un “prima” e un “dopo”. A Milano ha provato ad offrire un nuovo “dopo” dove sì i Led Zeppelin hanno un posto – Il nuovo arrangiamento di “Four Sticks” – ma dove sono antichi blues come “Satan Your Kingdom Must Come Down” a indicare la via del presente insieme ad arrangiamenti personali di classici folk – “The Cuckoo” – e alle cover di canzoni magari poco conosciute ma che ancora oggi possono avere un valore. Il migliore esempio è “House Of Cards” di Richard Thompson; una canzone magnifica dal testo immortale ed una carica emotiva di cui le canzoni sono sempre più prive.
La vita, come diceva Peter Sellers, è davvero uno “stato mentale”.