Musicologo e musicista, Franco Fabbri è un artista che da decenni agita gli spazi culturali italiani. “Album Bianco”, un suo vecchio libro, diventa l’occasione per conoscerlo meglio e per dare voci a tanti spunti di riflessione.

Mi piace leggere, non potrei farne a meno, è un bisogno primario che metto in atto quando e dove posso, il più possibile (e non è mai abbastanza). È un punto fermo, non solo per nutrire la mia mente (lato fantasia), ma anche come riferimento attendibile (lato conoscenza) in un mondo dove la realtà è ormai plasmata sulle panzane e le puttanate propinate dalla cattiva informazione e dai social. Il fatto che un altro caposaldo della mia vita sia la musica mi porta ovviamente a leggere una grande quantità di libri sull’argomento; biografie di gruppi italiani e stranieri, enciclopedie generali e tematiche, discografie: divoro tutto avidamente, forse anche per avere una sorta di riscontro esterno alle mie personali idee ed esperienze musicali.

E parlando di musica, c’è un libro, spesso visto sui banchetti delle offerte e nei negozi di remainders, che però ho sempre un po’ snobbato, vuoi per la copertina dalla grafica spartana, vuoi per l’autore che non conoscevo troppo bene.

E ho fatto male, malissimo. Però per mia fortuna ho finalmente rimediato a questa grave mancanza, perché Album bianco di Franco Fabbri (Arcana, 2002), pur non essendo una pubblicazione recente, pur non avendo il fascino estetico di uno snaggletooth in copertina o i contenuti esplosivi della bio dei Mötley Crüe, mi ha fatto pensare più volte ah, però, che figata, perché ho aspettato così tanto a comprarti?

Franco Fabbri, oltre che critico, scrittore, insegnante e musicologo, è stato chitarrista e cantante del gruppo Stormy Six, una delle formazioni del pop/progressive italiano attiva tra il 1965 e i primi anni ‘80. Tanto per dire, proprio nel 1980, il loro album Macchina maccheronica in Germania ha spodestato dal primo posto in classifica nientemeno che i Police di Zenyatta Mondatta.

Album bianco”, il cui sottotitolo è Diari musicali 1965-2002, rappresenta perciò un’importantissima testimonianza in prima persona di un periodo molto produttivo della musica italiana.

Il fatto che gli Stormy Six fossero un gruppo dichiaratamente politico apre anche finestre su scenari non esclusivamente musicali del panorama delle band nazionali degli anni ‘70. L’evoluzione degli Stormy Six si muove di pari passo con le pulsioni sociali, le proteste e le lotte del Movimento Studentesco, ed è legato a doppio filo alla politica (di sinistra) del periodo. Basti notare che, della settantina di concerti suonati nel 1972, i primi trentasei furono organizzati a supporto di comizi del PCI, e altri ventiquattro si svolsero all’interno della Festa dell’Unità. Un dato indicativo dell’atmosfera di quegli anni; non solo i concerti erano oggetto dei violenti scontri tra autonomi e forze dell’ordine per rivendicare la musica gratis, ma anche all’interno del mondo pop-rock nazionale era in atto una disputa sulla necessità o meno che le band prendessero una chiara posizione politica. Molti musicisti rimasero relativamente impermeabili a questa tendenza, altri, come Fabbri e compagni, ne fecero un tratto distintivo della propria proposta musicale, da una parte godendo del beneficio di avere un ampissimo ventaglio di opportunità per suonare dal vivo, dall’altra regalando alla musica e al movimento canzoni che diventeranno veri e propri inni, come Stalingrado, La fabbrica, Dante Di Nanni, La manifestazione.

Ma questa scelta non sarà limitante, poiché la formazione culturale e musicale dei componenti degli Stormy Six (per un certo periodo nella line-up figura anche Claudio Rocchi) non è solo basata su slogan o sull’analisi di tensioni sociali, ma soprattutto su una solidissima preparazione e su un’attitudine spontanea alla composizione tanto libera quanto affamata delle tendenze e delle novità provienti da oltre confine.

Gli anni coperti da questo diario musicale sono sviscerati sotto tutti gli aspetti possibili: le novità musicali internazionali che in qualche modo influenzano la creatività della band (troviamo di tutto, da Brian Eno ai Kraftewrk, dai Clash agli Inti Illimani, da John Cage a Stravinskij), il cinema, i viaggi con mezzi di fortuna per suonare in giro per l’Europa nei luoghi più disparati, le persone (dj, giornalisti, conduttori televisivi, discografici) che hanno – nel bene e nel male – caratterizzato e a volte anche indirizzato il mondo musicale italiano e straniero.

L’atmosfera è vivida, e per un musicista leggere queste pagine è come ripercorrere la propria personale esperienza, poter confrontare il proprio percorso con quello che succedeva negli anni ‘70.

Per scoprire, ad esempio, i rapporti altalenanti con le altre band, dalla fraterna collaborazione alle invidie; oppure il rovescio della medaglia dell’impegno politico, quando gli stessi comitati a cui fa riferimento la band si permettono di criticare alcuni pezzi accusandoli di “formalismo”, con la solita miopia di certi integralismi, oltretutto già allora storicamente fuori tempo.

Esisteva addirittura una commissione RAI che censurava senza tanti problemi le canzoni che non si adattavano alla cotonata rispettabilità delle trasmissioni radio nazionali: ogni singola canzone di ogni singolo disco veniva provvista di una nota riassuntiva che ne inquadrava il ritmo, il tipo di testo e l’opportunità o meno di trasmetterla, a volte solo dopo “colloquio con la Direzione Generale”.

Il prezzo da pagare per essersi conquistati uno spazio di visibilità.

Tutto questo è tenuto insieme e compattato dal nucleo di base, la band, gli Stormy Six, con le loro dinamiche caratteriali, le difficoltà a comporre mentre si è in giro tutto l’anno per concerti, le defezioni e i nuovi componenti, i rapporti fluidi e gli equilibri complicati. Ordinaria amministrazione, come sa chiunque metta tutto se stesso nell’impegno di portare avanti un gruppo.

E c’è anche spazio per brevi digressioni tecniche, dove il Fabbri compositore si sofferma sulla teoria musicale che sta dietro una canzone; così per esempio spiega la genesi del giro che diventerà poi la canzone più conosciuta degli Stormy Six, Stalingrado: “…una sequenza di accordi – Mi minore, Do maggiore, Re maggiore, La minore – che sviluppa il pendolo fra primo e sesto grado del modo minore (dylaniano!), ma la sua caratteristica principale è quel quarto grado (il La minore) alla fine, la risoluzione plagale al Mi minore, l’ambiguità tonale che ne deriva (siamo in Mi minore o in Sol maggiore?)”.

Dico la verità: io di teoria musicale non ci capisco una mazza, però è la prima volta che leggo cose del genere in un libro che racconta la storia di una band e dei suoi musicisti.

E senza dubbio anche queste digressioni sono servite a farmi sentire quel profumo, quella sensazione di essere lì, con loro, a gioire e soffrire di esperienze on the road, le stesse che un po’ tutte le band che credono in quello che fanno hanno dovuto affrontare.


PS – La definizione di plagale, a me completamente ignota (sono così impreparato sull’argomento, che per un attimo ho anche pensato fosse un errore di battitura, ha ha ha!), me la sono dovuta cercare sul vocabolario:

“Nell’armonia tonale, cadenza plagale, successione armonica in cui si giunge all’accordo di tonica (fondamentale o momentanea) non dall’accordo di dominante, come avviene nella cadenza autentica o perfetta, ma da quello di sottodominante. A differenza della cadenza perfetta, decisamente conclusiva, la cadenza plagale possiede un andamento più solenne, per cui fu usata comunemente nella musica sacra polifonica del Rinascimento”.

Nebbia totale.

Anzi, nebbia plagale.

La pagina Wikipedia di Franco Fabbri: https://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Fabbri