Il rock è morto. L’abbiamo sentito proclamare decine di volte. Forse la prima volta fu già nel 1954, quando la rivista Variety, con la redazione scombussolata dai movimenti pelvici di Elvis, diede per certo che in capo a qualche mese non si sarebbe più sentito parlare di quel fastidioso rock’n’roll, la rumorosa musica ribelle che deviava i giovani su strade peccaminose e mirava alla distruzione della società ordinata e timorata tanto faticosamente ricostruita dopo il secondo dopoguerra.
In fondo un po’ ci aveva preso, perché – nonostante l’esercito guidato dai Jerry Lee Lewis, Buddy Holly, Chuck Berry, Gene Vincent, Eddie Cochran, Little Richard avesse contribuito ad andare oltre le istanze della beat generation, dando finalmente forma ed evidenza a una fascia sociale fino ad allora ignorata, cioè i giovani con le loro speranze, paure, esigenze – il rock’n’roll già nel ‘58 aveva pressoché esaurito la propria spinta provocatoria.
Ma le cose non sarebbero più state come prima: innanzi tutto si cominciò a parlare di musica e non solo di “musica per neri” e “musica per bianchi”, com’era stato fino ad allora; e poi era arrivata, per non andarsene più, la vera regina del rock, la chitarra elettrica.
Negli Stati Uniti il rock’n’roll aveva letteralmente minato la popolarità del country, del blues e del rhythm’n’blues, dando un bello spintone a quelle che in fondo erano le proprie radici; inoltre aveva cominciato a popolare le cronache di altre morti, questa volta vere, quelle violente e compiante dei suoi eroi, che da allora cominciarono a cadere sulle strade dell’eccesso, della droga e della velocità. E per la prima volta l’industria della musica, della moda, dei beni superflui, vide l’opportunità di fare soldi, di modellare una nuova generazione di consumatori a proprio piacimento utilizzando proprio l’arma che avrebbe dovuto sovvertire la società conservatrice e consumistica. E fu così che il rock’n’roll morì la prima volta.
Come in natura, questo decadimento lasciò i semi del rock non tanto inteso nel senso di musica, ma di attitudine, stile di vita: un modo per rapportarsi col mondo rivendicando spazi per se stessi, un codice di riconoscimento e un percorso di ricerca di identità. Grazie a questa spinta, la superficiale ribellione degli anni ‘50 allargò la visuale, contestò la guerra, abbracciò la filosofia orientale come alternativa, la droga come via per esperienze visionarie, il sesso come liberazione di un corpo finora mortificato dal bigottismo. Con questa prima rinascita il rock aggiunse inedite sfumature che diventeranno le sue caratteristiche di rottura e protesta. E anche questa volta il destinatario della protesta, il famigerato sistema, trovò il modo di sfruttare in modo subdolo questa spinta, un po’ schiacciandola sotto una cieca repressione, un po’ deviandola sul consumo. Negli anni ‘60 convivevano, contemporaneamente, le prove generali della rivoluzione e quelle del potere del mercato. Un dualismo che non si spegnerà più, e che avrà sempre e solo un vincitore. Che non è la musica. Il rock è morto.
Intanto il blues tornava come un boomerang agli Stati Uniti, trasformato da musicisti soprattutto inglesi in una musica per tutti, non più relegata nei circuiti per neri come avrebbe voluto il razzismo americano; e un rivoluzionario Dylan poneva le basi per un nuovo messaggio veicolato dalla musica: protesta e denuncia sociale. E si aprirono le porte del pacifismo, gli hippie piano piano spostarono l’interesse verso l’esplorazione intima dentro se stessi, con l’aiuto delle droghe e di un isolamento in quella bolla psichedelica che fu a sua volta una spinta verso nuove correnti musicali pronte a fare terra bruciata, per poi trasformarsi in altro. Ci fu la breve stagione dei raduni musicali, che si chiuse a cavallo dei ‘60 e ‘70, decretando anche la quasi totale sparizione degli hippie. Non prima che moda e media ne avessero tratto grandissimo profitto.
Il rock è morto. A seppellire (o meglio, superare) il movimento sixty ci pensarono quelle band che, facendo riferimento ai padri blues della musica, innestarono un bisogno più diretto di far sentire la propria voce, che sfociò nell’hard rock, ma che vide anche cantautori che scarnificarono i sogni delle generazioni precedenti per offrire una realtà più cruda, fredda, disincantata. E poi avanti ancora, a colpi di epitaffi, finte rivoluzioni e rinascite: l’hard diventò heavy, poi il funky nero si infiltrò e contribuì ad aprire gli orizzonti; il punk fece velocemente piazza pulita di jazz-rock e progressive, per altrettanto velocemente sparire schiacciato dalle proprie stesse idee costitutive (beffando tutti con la grande truffa del R’n’R); la new wave sbilanciò tutto di nuovo, aprendo a moltissime e inedite influenze, poi ravvedendosi tra garage e underground, che la spogliarono degli orpelli depressivi. I tempi erano maturi per la grande rivoluzione, che non partì propriamente dalla musica, ma dal mondo dei media: arrivò MTV e tutto cambiò di nuovo, questa volta segnando indelebilmente modi e soprattutto tempi dello spettacolo, della comunicazione e dell’industria discografica. Velocità, colore, rumore, immagine, consumo: tutto subito, senza respiro, pochi secondi e poi via verso cose nuove.
Una situazione che preparò il terreno all’ennesimo presunto terremoto: il grunge. Sono passati ormai trent’anni, eppure di questa morte del rock qualcuno ancora parla con sofferenza. Ma anche questa non fu vera morte. Pensiamo solo a quanti grandi album metal uscirono nei primi anni ’90, quando secondo alcuni il grunge avrebbe ucciso il suo cugino hard/heavy. Pensiamo quanto questa nuova corrente fu utile a riportare (per esempio in fase di produzione musicale) i suoni della batteria a un concetto più pulito e realistico, dopo l’indigestione glam/pop di elettronica effettata all’inverosimile, spesso ai limiti del ridicolo. Per non parlare di trucco e abbigliamento. E anche il grunge è durato poco, perché il sistema sapeva ormai bene come trarre profitto piegando ogni istanza ribelle a proprio favore. Il rock è morto.
Per farla breve, al di là dei proficui affari che girano attorno alla musica, viene quasi da pensare che il peggior nemico del rock sia il rock stesso. Ma dobbiamo vederla in positivo, come un processo evolutivo senza fine. Un po’ come La cosa del famoso film: una creatura che muta continuamente, distruggendo e modificando se stessa per diventare qualcos’altro, al fine di sopravvivere.
Insomma esiste una sequenza-tipo, circolare, su cui la cosa rock sopravvive all’infinito: 1) la società (musica, dogmi, regole sociali) è una merda, serve qualcosa per cambiare, qualcosa che vada contro, che scuota dal compiacimento dell’immobilità; 2) sviluppo una nuova musica che spacca tutto e urla la mia protesta, e che catalizza per qualche anno l’attenzione; 3) anche il sistema se ne accorge, e trova il modo di ricavarne soldi, trasformando (non senza una certa complicità delle rockstar del momento) questa musica di rottura in prodotto, in strumento di potere e controllo; 4) è tutto di nuovo una merda, serve qualcosa per cambiare. E avanti così, all’infinito.
Il rock è morto? Non credo. Non morirà mai: ci aveva visto giusto Neil Young che, pensando al terremoto punk, cantava “Rock’n’roll will never die”, e che nei ’90 seppe trovare punti di stretto collegamento tra la sua musica e il grunge.
Sembra strano, ma sono proprio personaggi come Dylan e Young che hanno infuso nel rock molti degli elementi indispensabili che gli permettono di sopravvivere a se stesso.
PS: tranquilli, i generi “uccisi” dalle varie rivoluzioni musicali, esistono ancora.
Tutti.