Qualche anno fa, per curiosità e approfondimento professionale, ho affrontato uno di quei saggi della Sellerio Editore, librettini tascabili sì, ma spesso belli corposi per quanto riguarda i contenuti. Già anche il titolo, Elogio degli amanuensi, poteva nascondere tanto gioie per bibliofili, quanto pene e dolori per un lettore in cerca di svago più che di un mattone sulla storia dell’editoria.

In un centinaio di pagine il curatore Andrea Bernardelli analizza l’omonimo testo manoscritto da tale Giovanni Tritemio e pubblicato a stampa nel 1494, proprio quando era ormai chiaro che l’oggetto libro stava subendo una decisiva trasformazione grazie all’innovativa tecnica della stampa a torchio. Il monaco benedettino Tritemio, nonostante si serva già ampiamente della nuova tecnica, si dimostra – come evidenzia il titolo del suo scritto – fortemente critico nei suoi riguardi. Come poteva un bibliofilo e filologo come lui non comprendere le potenzialità del libro tipografico?

A questo punto il saggio cita una teoria esposta da Marshall Herbert McLuhan, padre degli studi sulla comunicazione, in un articolo apparso nel 1969 su Playboy (!!!).

Secondo McLuhan, un soggetto che si trovi a vivere di persona in un ambiente in trasformazione, è consapevole solo del contesto di riferimento che precede quello in trasformazione: è la cosiddetta prospettiva dello specchietto retrovisore, una sorta di auto ipnosi, una narcosi di Narciso. Ci guardiamo allo specchio nella piena fruizione del presente, ma percepiamo il passato come unico metro di riferimento, come unica esperienza positiva. In sostanza, si guarda al passato alla ricerca di una prospettiva per il presente. La narcosi di Narciso impediva a Tritemio di cogliere la vera portata del grande cambiamento nella storia della scrittura, che peraltro lui stesso stava vivendo in prima persona. Ecco perché scrive un elogio degli amanuensi in un momento in cui la realtà tipografica puntava in tutt’altra direzione.

Ma tutto questo cosa c’entra con il rocchenroll? Direbbe Ivan Graziani.

Ma può un libro del 1494 essere l’inizio della fine del rock?

La prima cosa che mi viene in mente è che la più volte sbandierata morte del rock sia frutto proprio di questa visione all’indietro. Discorso complesso, vorrei affrontarlo altrove.

Nello specifico invece, parlando di musica di base, di band sotterranee di ieri e di oggi, alla luce di queste considerazioni capisco meglio perché i vecchi leoni del rock, quelli che si sono fatti le ossa negli anni 70 e 80 – in un percorso tutto in salita di strumenti a poco prezzo, tecnica approssimativa, impreparazione degli operatori del settore, sperimentazione di nuove soluzioni di sopravvivenza spesso basate sull’improvvisazione del momento – pensino che tutto il buono della musica stia là, in quegli anni di sudore e sangue, sacrifici, determinazione cieca e inossidabile, il tutto teso alla costruzione di un proprio spazio e di una propria dignità come categoria riconosciuta.

Meglio il vinile, la cassettina, oppure il cd? Mini-disc o dcc? E gli mp3? La musica liquida? Lo streaming? Analogico o digitale?

Era meglio suonare con strumenti che adesso sarebbero buoni solo ad accendere il fuoco, ma mossi da una passione che ci ha portato fino al presente, oppure oggi, con tutto il supporto tecnico e professionale possibile e immaginabile, si riesce ancora a coinvolgere la gente con una musica che, pur sempre originale e “tua”, è più rifinita, impeccabile, ma nel contempo canonizzata, inquadrata?

Serve a qualcosa guardarsi allo specchio e sospirare il fatidico “Eh, ai miei tempi…”?

Quanti Tritemio disorientati, nostalgici delle vecchie battaglie, si ostinano a depurare il passato dai molti difetti e a rivestirlo di un velo dorato, pur di non accorgersi che la musica è continua evoluzione, sempre, in tensione verso nuove svolte, ora come non mai anche un po’ tutt’uno col progresso tecnologico. Ma la realtà è questa, che ci piaccia o no; è in questo contesto di mordi e fuggi generale, del tutto subito, che si devono districare le giovani band, i giovani musicisti che vogliono far sentire la propria voce e ritagliarsi un proprio spazio. Una realtà che, una volta capita e accettata, dovremmo vivere (e non subire) con i nostri progetti sempre ben chiari in testa.

Che poi, a guardare bene, ci sono anche cose che non sono cambiate: non siamo forse stanchi di combattere sempre le stesse battaglie di un tempo, essere riconosciuti come realtà musicale, suonare su un palco decente, in locali decenti, ricevere – sia dal punto di vista del pubblico che del trattamento economico – il giusto riconoscimento per tanta abnegazione?

Guardando indietro, c’è piuttosto il sospetto di un fallimento, di una colpa: non essere stati capaci di costruire un sottosuolo musicale forte e compatto, in grado di influenzare, di porre condizioni, di farsi valere.

Allora sarebbe bello coprire questo specchietto retrovisore, infrangere lo specchio, smettere i panni di narcisi con lo sguardo fisso al passato, e aprire la mente, rimboccarsi le maniche e trasformarsi in partigiani della musica tutta, vecchia, nuova, giovane o retró, pura o contaminata; finché il mondo underground non sarà un solo grande esercito, non c’è speranza di avere una voce autorevole e un peso reale nella musica.

Utopia, lo so; ma diamoci da fare. A sbatterci come matti per risultati trascurabili siamo più che abituati. Però ci siamo.