Uno degli aspetti più belli di essere un appassionato di musica è scoprire i tesori nascosti, quegli album attuali (o del passato) che per mille motivi difficilmente avranno successo o assurgeranno, comunque, almeno al ruolo di disco da culto.

Immortal’s requiem” degli inglesi Phantom Spell è uno di questi.

Aggiungiamo che intorno al loro nome c’è un marcato alone di mistero, testimoniato dal fatto che sia sul web sia nel packaging dell’album sono pochissime le informazioni che li riguardano, eccetto che il leader Kyle McNeill, cantante della band, è il frontman dei londinesi Seven Sisters, dediti a un metal più classico e canonico.

Trovo sempre difficoltà a categorizzare il genere di una band, ma, dovendo farlo per facilitare il lettore, in questo caso opto per un heavy prog di alta levatura.

Il sound poggia su fondamenta solidissime dove si mischiano alla perfezione: la splendida voce, molto pulita, epica ed estesa di McNeill, a proprio agio sia nelle strofe dove deve restare più bassa e introspettiva sia in quelle dove può estendersi su toni alti; la sezione ritmica dinamica, potente e  precisa; chitarre graffianti, ma, al contempo, dispensatrici di assoli e melodie meravigliose; tastiere che occupano un ruolo di primo piano nell’orchestrazione dei brani.

Dovessi collegarli temporalmente, li andrei a posizionare nel ramo  più progressivo della n.w.o.b.h.m. (new wave of british heavy metal), un po’ come gli svedesi Hallas e i conterranei Wytch Hazel.

Infatti, proprio da quel periodo straordinario derivano le principali influenze: il lavoro di basso e batteria trova  negli Iron Maiden il principale punto di riferimento, mentre le parti vocali, le melodie,  i cambi di tempo e i toni epici rimandano al versante più prog del movimento, Saracen e Shiva su tutti, senza escludere un certo approccio compositivo che mi ricorda i Kansas e i Rainbow prima maniera.

La title track ha il compito di aprire la scaletta dell’album, offrendoci un inizio solenne come il suo titolo, e di condurci a “Dawn of mind” dove emergono tutte le caratteristiche della band, per un brano maestoso e progressivo da manuale.

“Seven sided mirror” prosegue sulla falsariga del brano precedente, anche se qui sono più evidenti le influenze dei Kansas per l’orchestrazione e dei Saracen per le linee vocali, mentre la sezione ritmica continua a galoppare come se non ci fosse un domani e la solista a sciorinare assoli di alta qualità.

L’heavy prog lascia spazio ad un brano di grandissimo hard rock, “Up the tower”, dalla melodia irresistibile in cui la voce ci regala un’altra interpretazione maiuscola.

“Black spire curse” è uno strumentale imbevuto di progressive con cui la band dimostra tutta la sua classe.

Dopo tanta bellezza è incredibile trovarsi di fronte al capolavoro dell’album, “Blood Becomes Sand”, un brano ispirato e drammaticamente evocativo, con un assolo da brividi.

Ma le sorprese non sono finite, ecco infatti un omaggio al compianto Rory Gallagher con una versione heavy prog della sua “Moonchild”.

La chiusura dell’album spetta alla splendida “Keep on running”, edizione alternativa rispetto a quella edita nel 2021 su singolo digitale, dove ancora voce e chitarra solista offrono una prestazione di alto livello sempre sorrette dalla potentissima sezione ritmica.

Album di alto livello che potrebbe essere un outsider per la “top ten” del 2022.