Dalla romanza al folk al rock: ma Leopardi amava il rock’n’roll?

La poesia non mi piace; gusto personale, forse perché non ho ricevuto gli strumenti giusti, o non ho
la sensibilità, per poterla apprezzare. Però un autore classico della nostra letteratura, che tra l’altro a
scuola sopportavo ancora meno degli altri poeti, lo devo ringraziare. E, in aggiunta, ora il suo nome
provoca un corto circuito cerebrale che mi fa pensare al mondo delle chitarre. Strano, no? Ma
andiamo con ordine, innanzitutto partendo col ringraziamento, che va a Giacomo Leopardi.

Davanti alla sua casa storica, a Recanati, in una piazzetta tranquilla, dove una manciata di persone
cercavano l’ombra per poter ammirare le stanze e le librerie perfettamente visibili attraverso le
finestre aperte, vengo a sapere che in città è stato da poco inaugurato nientemeno che un museo
della musica. “Ci sono le chitarre Eko” dice un ragazzo.

Allora i ricordi esplodono: ma certo! Mi tornano in mente le prime esperienze musicali, alla fine
degli anni ‘70, quando con gli amici e con strumenti improbabili cercavamo di emulare i nostri idoli
rock. E sull’attrezzatura che si riusciva a recuperare, tutta rigorosamente di seconda mano e in
condizioni da discarica, spesso faceva bella mostra la scritta “Made in Recanati”. Di quei giorni
ricordo un pedale wah Davoli, oppure un’unità di riverbero a molla grande come una testata
Marshall da 100 watt. Allora, al contrario di oggi, mi domandavo cosa c’entravano gli strumenti
musicali con il Leopardi.

Quindi, subito al MUM, il Museo della Musica, che è un bel salto nel passato della storia produttiva
e musicale del nostro Paese. Infatti la zona Castelfidardo-Recanati-Potenza Picena è nota per la
produzione prima delle fisarmoniche e poi di altri strumenti più moderni. Il museo è ben fatto, non
grandissimo, e raccoglie strumenti storici realizzati nella regione, una vera e propria storia della
musica e del suono in Italia e nel mondo. In esposizione una bella selezione di chitarre Eko prodotte
dagli anni ‘50, amplificatori FBT, tastiere Farfisa. Che nel mondo hanno spopolato veramente,
soprattutto tra i ‘50 e i ‘70, a giudicare dalla documentazione in mostra, che rivela come
praticamente tutto il panorama musicale si affidasse (anche) alle marche italiane. E alcuni nomi
sono stati una vera sorpresa. Rolling Stones, Beatles, Jackson 5, Who, Led Zeppelin, Kinks,
Genesis, Rokes, Jimi Hendrix (!), Gerry Rafferty, Celentano, Branduardi, De Andrè, De Gregori,
Equipe 84, Ivan Graziani, Battisti, Nada, Vandelli, Finardi, fino ai più recenti Zucchero, Dodi
Battaglia, Stef Burns, Massimo Varini, Alex Britti.

In esposizione anche un certo numero di fisarmoniche, sia perché la zona è la patria della fisa, ma
anche perché – come ho scoperto – la chitarra elettrica italiana appartiene senza dubbio allo stesso
albero genealogico. È andata così: nel secondo dopoguerra sono arrivati gli americani, non solo con
la loro musica beat e rocchenroll, ma anche con le basi militari, soprattutto in Italia e Germania, i
nuovi Stati-confine della guerra fredda. Con i soldati sono arrivate le band, e gli strumenti musicali,
le prime elettriche Gretsch, Fender e Gibson. Strumenti troppo costosi, e praticamente impossibili
da trovare. Ma la musica chiamava, i giovani volevano suonare, dimenticare il passato ed emulare le
nuove istanze che venivano da oltreoceano. Si scatenò una ricerca e una richiesta di strumenti
musicali che prese in contropiede i produttori nazionali. I quali però, con intraprendenza tutta
italiana, non si fecero assolutamente scoraggiare. Fu così che i produttori di fisarmoniche decisero
che bisognava andare incontro alle nuove esigenze della musica elettrica. Già i nomi dei primi
produttori di chitarre elettriche italiane mantengono un certo profumo di pista da ballo: Galanti,
Cingolani, Bartolini, Crucianelli, Pigini. Fu proprio Oliviero Pigini a vedere un po’ più lontano: nel
‘59 fondò la Eko, un brand che – almeno nel nome – si scrollava di dosso un po’ di italianità. Ma
non del tutto. Insomma, il problema era: come le facciamo queste chitarre? Nacque uno strumento
così ibrido e unico che oggi i modelli originali sono ricercati e collezionati in tutto il mondo.
Le forme erano senza dubbio ispirate dai famosi marchi americani, ma sull’elettronica si fece
affidamento alla grande esperienza dei costruttori di fisarmoniche. Ecco perché le nostre chitarre
degli anni ‘50-’60 sono tempestate di tasti, pulsantini, interruttori, che oggi quasi non si capisce più
a cosa servano. Tutto veniva gestito da un vero e proprio impianto “da fisa”: accensione, alti, bassi,
medi, volume, tono 1, tono 2, tono 3 e altre amenità. Non solo, anche l’aspetto doveva essere
luccicante, per riflettere le luci delle balere, e allora vai con i rivestimenti di plastica, i brillantini, le
madreperle, l’osso di tartaruga, i bordini in rilievo. Mancavano solo i battiscopa e le spazzole
lucidatrici, e avevamo l’elettrodomestico perfetto!

Questi strumenti, che hanno caratterizzato la decade del beat italiano per poi essere definitivamente
soppiantati dalle repliche giapponesi e poi (quando sono arrivati i soldi) dagli originali americani,
hanno però un’aura tutta fatta di nostalgia, tradizioni, ma anche voglia di rinascita, di appropriarsi
del futuro. Per questo i collezionisti non se li lasciano scappare.

Però a scuola dovrebbero dirlo che Recanati non è solo la patria del Poeta, ma anche il luogo dove
un giorno una fisarmonica e il rocchenroll hanno generato le chitarre più strabilianti mai comparse
davanti all’Infinito.