Poco tempo fa, recensendo l’ultimo album live degli israeliani Orphaned Land , avevo affrontato il tema del cosiddetto “desert rock” o “oriental metal”.

Nel farlo avevo accennato ai tunisini Myrath, il cui primo embrione a nome Xtazy nasce nel 2001 per poi assumere quello attuale nel 2006 e da lì iniziare un’ottima carriera costituita ad oggi da sei album in studio e un live, cui va aggiunto un dvd dal vivo di un concerto registrato in Svezia nel 2019.

Rispetto agli Orphaned Land e ai loro conterranei Subterranean Masquerade, entrambi fautori di un metal dark e progressive nato da esordi estremi, i Myrath hanno arricchito di elementi arabeggianti un power metal di ottima fattura che poggia molto sulla chitarra del fondatore Malek Ben Arbia, sulle orchestrazioni dettate dalle tastiere e sulle eccelse linee vocali di Zaher Zorgati, senza dimenticare una sezione ritmica precisa, potente e moderna.

Il livello della band è andato costantemente in crescita, tanto che gli ultimi due album, “Legacy” (2016) e “Shehili” (2019), hanno ottenuto notevolissimi riscontri testimoniati dai due live di cui sopra.

Adesso è la volta di “Karma”, disco molto atteso, il cui brano di apertura “To the stars” mette subito le cose in chiaro e offre un brano epico d’impatto.

Il singolo “Into the light” https://youtu.be/yV8Bqkzuu-s?si=D1ZcUEVUjL2aunQV offre maestose orchestrazioni tastieristiche che, aiutate dagli archi, offrono una base ideale alle melodie vocali di Zorgati e all’evolversi sinfonico del brano.

Rispetto ai precedenti la verve “oriental” è meno evidente, quasi a voler cercare una visibilità internazionale maggiore.

La cosa si evidenzia con “Candles cry” che gioca su un metal troppo ruffiano rispetto alle abitudini, anche se offre un Ben Arbia ben presente nei riff e negli assoli, mentre con “Let it go” e “Words are failing” si viaggia verso coordinate quasi AOR.

Interessanti le melodie di “The wheel of time” che poggiano su ritmiche in cui il basso è protagonista.

“Temple walls” torna a essere arricchita delle sonorità orientaleggianti che li hanno contraddistinti e la cosa si evince anche con la successiva “Child of prophecy” il cui inizio romantico apre a un brano ricco di cambi di tempo.

“The empire” è potente ed epica come il suo titolo e regala uno splendido assolo, mentre l’altro singolo “Heroes” si esprime con melodie azzeccate.

L’enfatica “Carry on”, brano ricco di pathos e dall’orchestrazione maestosa, chiude un album che per il sottoscritto manca un po’ di omogeneità e di quella cartteristica che li aveva fatti emergere in un genere inflazionato e spesso autoreferenziale.

Intendiamoci, si tratta di un’opera ben prodotta, suonata e, soprattutto, ottimamente cantata, ma, sentiti i precedenti, mi sarei aspettato qualcosa in più.

Band:

Zaher Zorgati – voce

Malek Ben Arbia – chitarre

Anis Jouini – basso

Kevin Codfert – tastiere, piano, karkabou e cori

Morgan Barthet – batteria

Guests:

Pierre Danel – chitarre elettriche e acustiche

Khaled Kalbousi – archi

Ryadh Ben Amor – archi berberi

Alexandra Vallet Aka Laya – archi occidentali

Julien Duchet – fiati