Fuoco e fiamme su Times Square!!
Lights, camera, action. New York è un film. Le luci di Times Square abbagliano. I palazzi smettono di essere palazzi, i negozi passano in secondo piano, vedi solo luci e immagini che si susseguono come se fossi in un cinema. Le strade brulicano di gente e fermarsi è un atto di coraggio. Dopo il deserto causato dal COVID, Times Square è tornata ad essere un crocevia di gente di ogni tipo: chi fa selfie, chi balla in mezzo alla piazza, chi suona la chitarra in mutande, chi mangia un trancio di pizza camminando, chi fa la fila chilometrica per i biglietti di Broadway, chi predica la fine del mondo. Svoltato l’angolo con la 44esima, un nugolo di gente con magliette nere aspetta con pazienza il proprio turno. Sono i fans degli Overkill che stasera suonano al Palladium, un locale che riesce a contenere ben 2100 posti a sedere. Niente sedie questa sera, ovviamente, ma a New York gli Overkill riescono a riempire un posto del genere da headliner. Ciò la dice lunga di quanto i thrasher del vicino New Jersey siano ancora amati da queste parti.
Ad aprile le danze sono però i Prong, band newyorchese già vista a novembre con Black Label Society e Obituary. Ora come allora, la band convince, grazie anche al maggior tempo a disposizione. Si apre con i suoni industriali di “Test”, dove il minuto Tommy Victor giganteggia sul palco e incita i ragazzi delle prime file. Si prosegue con “Disbelief”, un pezzo in stile hardcore che risale niente meno che all’EP “Primitive Origins” del 1987, la classica “ Beg to Differ” a l’altrettanto classica “Lost and Found”. “Cut rate” e “Another Worldly Device”, “Snap your Fingers, Snap your Neck” ricordano come l’album “Cleansing” del 1994 si possa considerare una pietra miliare degli anni Novanta. Peccato solo che l’assenza della tastiera faccia perdere a questi pezzi il gusto industriale del loro sound originario. “Whose fist is this anyway” e “However it may end”, chiudono un concerto che fa da degna preparazione all’esibizione degli Overkill.
Bastano le prime battute di “Wrecking Crew” per capire che vedere gli Overkill a New York è diverso che altrove: si ha quasi l’impressione di essere a una rimpatriata, dove molti si conoscono e saranno probabilmente al loro cinquantesimo concerto della band. È la stessa sensazione di tre anni fa, quando li vidi dal vivo nello stesso posto ma con i Life of Agony di spalla. Più che un concerto, è una festa di paese abitato dai seguaci del teschio con le ali da pipistrello. Mentre la birra scorre a fiumi, la band sciorina classici come “Hello from the gutter” e “Rotten to the core”. La voce di Bobby Blitz Ellsworth è sempre la stessa: una sorta di Robert Plant marcescente e diabolico. Una voce unica, nel thrash dell’epoca cosi come nei generi più moderni, spesso appiattiti sui canoni del metalcore. A fianco il fido DD Verni (all’anagrafe, Carlo Verni), il cui suono di basso ha fatto epoca. Il repertorio degli Overkill non si limita a ripercorrere anni Ottante e Novanta ma abbraccia tutta la loro quarantennale carriera: si passa dai classici “In union we stand” a pezzi più moderni come “Bring me the night” (da Ironbound del 2010) e “Head of a pin” (da The Wings of War del 2019) ad altri classici come “Horrorscope” e la fulminea “Elimination”. Qui comincia il lavoro serio per la security: dalle retrovie si scatena un crowd surfing violento, piovono gambe e braccia ed è difficile per chi sta nelle prime file non essere investito da qualcuno di questi “naviganti”.
Naturalmente non finisce qui: cinque minuti di pausa e gli Overkill tornano sul palco con l’ottima “Necroshine”: non so se si possa considerare un classico ma, personalmente, trovo sia uno dei pezzi migliori della band che dal vivo rende ancora di più che su disco. “Welcome to the garden state” è un omaggio punk alle radici del gruppo (il Garden State infatti non è altro che il New Jersey) mentre “Overkill” rimanda agli esordi della band.
Se andate a vedere gli Overkill dal vivo, non vi dovete aspettare grosse sorprese. Ma forse è proprio questo il punto. Nonostante l’anagrafe parli chiaro, la band è ancora in forma come un tempo e i membri storici del gruppo sono ben amalgamati con quelli più recenti. Nessun rischio, insomma, di trovarsi di fronte a una band scoppiata. E Bobby Blitz convince ancora quanto chiude il concerto sbraitando: “we don’t care what you say, fuck you!”.