Non so quanti si possano vantare di conoscere veramente Bruce Dickinson. Dire che è il cantante degli Iron Maiden è giusto, ma non rende giustizia alla complessità del personaggio. Che dire della sua carriera di pilota? come considerare la sua passione per la scherma? Cosa lo avrà spinto a scrivere i racconti dei primi anni Novanta? Si può trascurare la sua teatralità e il suo senso dello humour? Possibile che sia stato anche presentatore radiofonico e televisivo? Che c’entrerà mai la sua carriera di musicista con quella di produttore di birra?

Difficile mettere insieme tutti questi tasselli e ricavarne un quadro completo. Una mano però la può dare lo spoken word che ha preso il via lo scorso 17 gennaio a Fort Lauderdale (Florida) e che attraverserà il Nord America per una fitta serie di date fino a fine marzo. Stasera lo abbiamo visto a New York nella splendida cornice del Townhall, un teatro a due passi da Times Square, nato nei favolosi anni Venti e, grazie a Dio, risparmiato dalla furia distruttrice dei “developer” newyorchesi.

Lo spettacolo, in sè, non è novità. Alcuni di voi lo avranno già visto tre anni fa al Teatro Dal Verme di Milano. Bruce parte dalla sua autobiografia, “What does this button do?”, per raccontare la sua vita e gli episodi più curiosi e divertenti della sua carriera. Il tutto corredato da foto d’epoca che lo ritraggono adolescente accanto al suo beneamato zio oppure ventenne con i Samson, la sua band pre-Iron Maiden, o ancora con la divisa di pilota d’aereo. Lungi dall’essere un barboso elenco di ricordi, la serata scorre via velocement fra risate e grida di approvazione. Sarà il modo di raccontare, saranno le espressioni che fa, saranno i suoi gesti teatrali, lo spettacolo non perde mai quota e scorre per un’ora e mezza senza che la noia prenda il sopravvento. Bruce è un fiume in piena ed è impossibile resistere alla sua verve comica o alle sue imitazioni di Nicko McBrain. Ne ha veramente per tutti ma la cosa forse più bella è il modo in cui prende in giro sè stesso. Quali altri cantanti sarebbero disposti a mostrare le foto dei vestiti più ridicoli indossati sul palco e riderci sopra con humour tutto inglese? L’ironia di Dickinson non risparmia neppure il posto in cui è nato (Worksop, “L’unico paese al mondo che ha un nome che non assomiglia a nessun altro”) e persino il cancro che è riuscito a vincere (“La chemio mi ha fatto cadere tutta la barba ma mi ha lasciato intonsi i baffi, che ho sempre odiato”).

Dopo un’ora e mezza di monologo, pausa di venti minuti per leggere tutte le domande poste per iscritto dal pubblico prima dell’inizio dello spettacolo. Come intermezzo, la proiezione del video di “The writing on the wall” che, con l’audio da cinema, ha ben altro effetto che su un semplice schermo di ipad. Il tempo di una birra e si riprende per un’altra ora in cui Bruce risponderà a tutte (dico, tutte) le domande poste dal pubblico.

Alla mia domanda se prevede di fare altri dischi solisti dopo quelli degli anni Novanta, mi ha risposto che è in cantiere un nuovo disco con il fido chitarrista e produttore Roy Z, che è stato fondamentale per il successo di “Accident at Birth” e “The Chemical Wedding”. Non sono stati forniti ulteriori dettagli ma speriamo che il disco rappresenti il degno seguito di “Tyranny of Souls”, che ormai risale a diciassette anni fa. Per chiudere in bellezza, una versione solo voce di Chemical Wedding.

Poi tutti a casa, fra le luci di Times Square e i fiocchi di neve di una serata gelida, ma che ci ha regalato tante e amozioni.