J.C. Cinel è un ottimo cantante, musicista e compositore, ma, soprattutto, è dotato di quello spirito che anima ogni vero rocker e che permette di fare la differenza.

Noto per essere stato vocalist dei grandissimi Wicked Minds sui due album (più un live) che hanno fatto balzare la band piacentina agli onori delle cronache musicali con riconoscimenti a livello internazionale, in realtà J.C. ha una lunga vita artistica prima e dopo questa parentesi, cosa che l’ha portato a incidere due album e un mini, “Halfway there” (2000), “Before my eyes” (2007) e “The light of a new sun” (2011), caratterizzati da un suono più cantautorale e folk, seppur con un’attitudine rock inalienabile, da cui traspare il lato più americano della sua anima, cementato dai lunghi periodi vissuti negli States, in primis a Nashville, dove ha potuto respirare e approfondire country, folk e southern… senza dimenticare il blues.

Restava però scoperto il suo lato hard rock a prevalenza anglosassone, solo in parte suffragato dall’esperienza con gli Wicked Minds, cioè quello caratterizzato dal grande amore per Whitesnake (quelli ante “1987”), Free, Bad Company, U.F.O.,… oltre che Led Zeppelin, Deep Purple e Uriah Heep.

Ecco quindi che a colmare questa “lacuna”, dopo oltre cinque anni di gestazione, arriva il nuovo album “Where the river ends”; già il titolo sembra quasi autobiografico, simboleggiando il percorso di tutte le idee e le esperienze che man mano si cumulano e vengono trasportate verso qualcosa di più grande.

Non si tratta di un concept in senso stretto, ma le canzoni, interamente scritte da J.C., hanno comunque un collegamento personale.

Dodici brani variegati a testimonianza della versatilità e cultura di questo artista.

L’inizio è roccioso: prima il mid-tempo di “City lights”, con un solo di chitarra splendido in vista del finale che acquisisce potenza fino a diventare pirotecnico, col l’hammond di Paolo “Apollo” Negri (Wicked Minds e G.O.L.E.M.) in forma smagliante; poi l’hard massiccio di “Oblivion” e i suoi spunti sleazy e funky; infine, con “Feel like prisoners”, brano che unisce pathos e impatto, oltre a regalare un assolo torrenziale in odore southern.

“Mindmaze / Red-handed” permette un apparente momento di quiete presentandosi come pezzo d’atmosfera e di classe, una sorta di semiballad che acquisisce solidità crescente.

Dopo la cavalcata hard rock di “Asylum”, spazio allo splendore di “Burning flame”, oltre otto minuti in cui l’estro compositivo si esprime con cambi di tempo e momenti psichedelici, di fatto osando su territori pressoché progressivi.

“How far we shine” sembra ancora muoversi sull’onda del brano precedente partendo con indole rilassata per poi vivere un crescendo che ci riporta su binari hardeggianti.

È il momento di un breve stacco strumentale, “Karakal (lost in Shangri-la)”, dedicata a Jimmy Page, in cui momenti acustici orientaleggianti di grande fascino raggiungono l’obiettivo di far percepire il dualismo tra visione più spirituale e quella più materiale.

Il viaggio prosegue con “Strangers” dove l’inizio romantico fa da preludio ad un crescendo che vede ancora protagonisti solista e tastiere.

L’accoppiata hard rock di “Thank God I was alone” e “Which side are you on” scalda ulteriormente l’ambiente in vista del gran finale garantito dalla title track, un brano totale di quasi otto minuti in cui si susseguono momenti acustici, altri più sleazy e parti ad alto voltaggio, con un trittico di assoli che coinvolgono tutti e tre i chitarristi in formazione; davvero una chiusura degna per un lavoro estremamente ispirato.

In un mondo giusto un album come questo avrebbe una visibilità adeguata, ma in attesa di qualche miracolo, credo che chiunque ami la musica hard rock di matrice settantiana debba farlo suo e divulgarlo con entusiasmo.

Chiudo con la speranza di vedere J.C. e la sua band suonare dal vivo, visto che da vent’anni calcano palchi in giro per l’Europa al seguito di nomi importanti del rock… anche perché quella è la loro dimensione naturale.

Musicisti:

J.C. Cinel – voce e cori, chitarra solista e ritmica, chitarra acustica, dobro e armonica

Davide Dabusti – chitarra solista e ritmica, cori

Andrea Toninelli – chitarra solista e ritmica

Daniele Tosca – basso

Marco Lazzarini – batteria

Marcello Baio – batteria su “Where the river ends”, “Strangers” e “Thanks God I was alone”

Roberto Tassone – batteria su “How far we shine”

Paolo “Apollo” Negri – Hammond, Fender Rhodes e Moog

Gianni Grecchi – basso su “City lights”