Dopo aver scoperto il suo eccellente progetto Docker’s Guild (leggi la recensione nel link), non abbiamo potuto non contattare il protagonista Douglas R. Rocker e scoprire che è americano, ma vive in Italia e che il suo curriculum è lunghissimo. A questo punto la curiosità è cresciuta ancora di più. Ne è venuta fuori un’intervista fiume, ma che merita di essere letta senza pause, perché è ricca di particolari e curiosità e ci dice che il panorama musicale è totalmente cambiato. In meglio o peggio? Buona lettura!

Come finisce in Italia un musicista americano con origini francesi (o viceversa). E soprattutto come mai decide di rimanere in Italia?

Ciao! Intanto grazie per avermi invitato su Back in Rock! Buona domanda iniziale, alla quale cercherò di rispondere in maniera sintetica. I miei genitori, a fine anni ’50, lavoravano per la stessa azienda. Mio papà in America, vicino a Chicago, e mia mamma a Parigi. Mia mamma fece uno stage in America e lì conobbe mio papà. Ad un certo punto venne aperta una nuova fabbrica vicino a Torino e furono traferiti lì. Dovevano rimanere un anno, ma siamo ancora qua. Ho fatto tutte le scuole in Italia, per poi partire nel 1992 per una lunga serie di esperienze estere che mi hanno portato a Hollywood, a Stoccolma, in Thailandia e a Parigi. Sono poi ritornato in Italia nel 2008, un po’ per occuparmi dei miei che stavano invecchiando e un po’ perché qui si vive bene e il costo della vita è molto più sostenibile che all’estero (Thailandia esclusa).

Come nasce la tua passione per la musica? È una cosa che arriva da sola o ti accompagna in questo mondo qualche familiare o amico?

I miei genitori erano entrambi musicisti, quindi sono cresciuto circondato dalla musica. Mio papà suonava il sassofono e il clarinetto, prima nella sua big band in America, poi nell’esercito americano di stanza in Germania. Mia mamma è pianista dilettante, ed è lei che mi ha seguito durante tutto il mio percorso musicale. Iniziò quasi per caso, quando mi iscrisse alla scuola di musica locale come allievo di pianoforte. Due anni dopo iniziavo il violino, entravo nell’orchestra della scuola, e poco dopo iniziavo i concorsi internazionali di pianoforte che mi portarono a vincerne una dozzina negli anni ’80.

Quali sono le band che hanno segnato la tua adolescenza e giovinezza, spesso sono i nomi che ci marchiano a fuoco per sempre?

Il colpo di fulmine arrivò nel 1978 con Grease. Avevo 12 anni, e fino ad allora avevo solo ascoltato e suonato musica classica. L’energia strabordante e il look ribelle del rock’n’roll mi conquistarono subito, e mi ricordo che appena tornato a casa dopo aver visto il film al cinema, cercavo freneticamente di riprodurre i vari brani al pianoforte. Da lì non mi sono più fermato. Dopo aver esplorato il rock’n’roll con Elvis, l’anno successivo arrivavano i Kiss con Dynasty, i Rockets con Plasteroid e i Police con Zenyatta Mondatta, che mi folgorarono. Credo che venga da lì la mia passione sfrenata per i progetti rock teatrali e sopra le righe. Non ho mai capito chi fa rock in tenuta da campeggio. Ci siamo capiti 😉 A inizio anni ’80 ho scoperto Bowie, che rimane il mio artista preferito in assoluto, e il metal. Prima Iron Maiden e Ozzy, per poi passare al glam e infine all’AOR. Ho invece scoperto il prog molto tardi, verso il 1989, quando rimasi senza parole davanti ai capolavori in particolare di ELP e Yes. E poi il mio piacere segreto, cioè la new wave anni ’80, in particolar modo i Duran Duran.

Hai studiato musica da ragazzo? Studi e ti perfezioni ancora oggi o sei un autodidatta che ha imparato a gestirsi?

Ho studiato tantissimo, credo fin troppo alla fine. Nel 1989 mi sono diplomato in pianoforte classico in Conservatorio. Fu anche il mio primo “pensionamento”, in quanto dopo aver passato gli anni ’70 e ’80 a fare concerti e concorsi classici, con grande orrore delle mia insegnante, appesi il cappello classico al proverbiale chiodo per dedicarmi quasi interamente al rock. Nel ’91 vinsi una borsa di studio alla Scuola APM di Saluzzo e mi diplomai come tecnico del suono, per poi partire per Hollywood nel 1992 e diplomarmi al Keyboard Institute of Technology. Ho anche fatto vari corsi e masterclass di music business, sia alla UCLA che in Italia. Poi nel 2002 mi è tornata la fame di musica classica e di studiare, e mi sono laureato alla Sorbona a Parigi, prima in musicologia classica, poi con specializzazione in etnomusicologia. Sono uno dei pochi esperti in musica tradizionale thailandese e in particolare in demonologia, cioè la venerazione di demoni da parte dei musicisti thailandesi. Ci ho scritto pure un libro. Devo dire che non è un’esperienza che mi sia tornata molto utile a livello professionale, ma mi ha aperto delle porte a livello culturale totalmente inaspettate. Bellissima esperienza.

Quando decidi di creare il progetto Docker’s Guild e perché? A livello compositivo è tutto materiale che nasce da tue idee?

La gestazione del progetto Docker’s Guild è stata lunghissima e risale al 1990. All’epoca mi ero un po’ stufato del metal dopo 10 anni di ascolti e concerti dove come tastierista c’era ben poco da fare. Dopo aver scoperto il prog, come scritto sopra, decisi di dare una svolta al mio songwriting e di sfruttare di più le mie capacità di tastierista. Nacque una serie di brani, alcuni dei quali suonammo live con il mio gruppetto amatoriale dell’epoca, tra cui The Mystic Technocracy, il brano di apertura del primo album, che ha dato nascita a tutta la saga anche a livello di testo e contenuti. Qualche anno dopo, mi trovavo a Los Angeles, e con la mia ragazza all’epoca, Mio Jäger, oggi conosciuta come la chitarrista delle Frantic Amber, decidemmo di fare un album prog basato su questi brani. Fu allora che mi resi conto che i testi di questi brani formavano una storia, con argomenti fantascientifici ma con al centro la follia delle religioni dogmatiche monoteistiche. Cominciammo a scrivere altri brani, ingaggiammo Tony Franklin al basso e registrammo dei demo sotto il nome Project DNA, ma la cosa morì lì. Tra i vari problemi, non c’era all’epoca la tecnologia per realizzare quello che avevo in mente. Nel 2008, tornato in Italia, decisi che era arrivato il momento di portare a conclusione il progetto, che però nel frattempo si era talmente ingigantito a livello di trama, che non era più possibile farne un solo album e da lì nacque l’idea di espanderlo prima a due, poi a cinque e adesso a nove album. Per quanto riguarda i brani, sono praticamente tutti scritti da me, con alcune notevoli eccezioni, in particolare quelli scritti nel periodo a Los Angeles che portano anche la firma di Mio Jäger. Ogni album ha poi 2 covers, scelte in base al testo o all’atmosfera musicale, che si devono integrare perfettamente alla trama. Sul primo album c’erano una cover di Bowie e una dei Rockets. Su quest’ultimo c’è Machine Messiah degli Yes e ben due covers dei Rockets.

Come sei riuscito a contattare i musicisti, alcuni veramente importanti, che hanno collaborato ai tuoi album? Si tratta sempre solo di pagare l’ingaggio o deve essere coinvolti nel brano?

Devo dire di essere stato veramente fortunato per quanto riguarda gli special guests. Al 90% li ho contattati a freddo, senza nessun intermediario e senza che mi conoscessero, e hanno tutti accettato senza riserve, essendo tutti rimasti molto impressionati dai demo che avevo proposto. Per quanto riguarda il loro input, loro ricevono dei demo già estremamente finalizzati e precisi, e questo gli rende il compito più semplice, non dovendo cercare di indovinare le mie intenzioni. Anche perché, vista la complesità del progetto, senza linee guida precise, sarebbe presto il caos. Dove diventano veramente importanti, è nel migliorare le parti dei demo, perché la loro esperienza e talento sono vastamente superiori ai miei, e portano quindi i brani ad un livello nettamente superiore rispetto alla visione iniziale.

Tra il capitolo uno e due di “The Mystic Technocracy”, in mezzo c’è un album che riprende colonne sonore. Sei appassionato anche di cinema? Qual è il tuo film preferito? Quale colonna sonora avresti voluto scrivere?

Sì, tra le cinque “stagioni” della serie, ci saranno quattro album intercalari che si concentrano su un personaggio o un aspetto della storia. Il primo “book” parla della passione del personaggio principale della saga, Jack Heisenberg, per la fantascienza. Sono tutte colonne sonore di film o serie tv vintage, rielaborate nello stile Docker’s Guild. La maggior parte sono europee, per esempio le serie della BBC, e sono stato lontano dai mega successi americani, tipo Star Wars, Star Trek e Stargate. Sono un grande appassionato di cinema, non solo di fantascienza. Sono anche un grande fan dell’espressionismo tedesco anni ’20 per esempio, e tutta la parte visiva del progetto (copertine, foto, video, grafiche) è ispirata a quell’estetica. Fare colonne sonore è stato il mio sogno nel cassetto fin da quando avevo 10 anni, ma non è mai successo, quindi alla fine mi sono scritto la mia storia di fantascienza della quale ho fatto la colonna sonora. Ed ecco nati i Docker’ìs Guild!

Tra i tanti progetti a cui hai partecipato quelli ci son Biloxi, Area 51, Waxhopes e tanti altri. Potresti spendere qualche riga su tutti i lavori a cui hai contribuito?

Beh sono parecchi. Diciamo che al 90%, la mia carriera musicale comprende progetti miei originali, ma occasionalmente ho anche prestato man forte ad altre realtà, a volte in ruoli piuttosto inusuali. I Biloxi sono stati un periodo molto importante per me, perché nel giro di un anno sono passato da musicista sconosciuto di provincia in Italia a calcare i più importanti palchi americani di Los Anegeles e oltre. Bellissima esperienza, durata troppo poco, ma di gran successo. Fu l’unica volta in vita mia dove il gruppo aveva i suoi roadies, un manager, un investitore e una limousine! Gli Area 51 furono un progetto molto più strano, ispirato alla mia passione per il prog e l’AOR, combinato con le influenze di Mio Jäger per la soul, funk e R&B. Ne uscì fuori un bizzarro album essenzialmente synth pop, ma con forti connotazioni rock e soul. In un certo senso fu il nostro “The Age of Plastic” dei Buggles. Come special guest invece, sono apparso sui lavori di Tony Mills (Shy, TNT), un caro amico scomparso troppo presto, delle Frantic Amber, dei Shining Line, Rustfield e altri. Ho collaborato anche con i Therion, traducendo alcune brochures contenute nel loro gioco da tavolo “011” e facendo il voice over dei documentari collegati al loro video “Adulruna Rediviva”, e ho scritto tutti i testi dell’album di debutto del Vivaldi Metal Project e del Chronomaster Project. Questi ultimi, con i Docker’s Guild, hanno formato il Black Swan Universe, che credo sia per ora l’unico esempio di universo condiviso tra varie rock operas, in puro stile Marvel.

Douglas R. Docker: Biloxi-time!!

Rispetto ai tuoi primi anni, cosa pensi che sia cambiato nel panorama musicale rock, ma anche in generale?

Tutto purtroppo, e non in meglio. Certo, all’epoca era più difficile emergere, e produrre musica aveva costi proibitivi, ma il sistema della musica aveva i proprii filtri per assicurarsi che emergesse solo il meglio. E si guadagnava. Oggi francamente è diventata un farsa. Potrei dilungarmi a lungo, ma scriverei un libro. Posso solo dire che l’industria della musica si è suicidata da sola e che non abbiamo ancora visto niente.

“Douglas Docker is kind of like, to me, the David Lynch of rock operas”, parole di Amanda Somerville. Sei interessato ad altre forme artistiche oltre alla musica? E se si quali?

Questo fu un complimento incredibile, che Amanda Somerville espresse durante la ripresa del suo video di presentazione per l’ultimo album “Season 2”. Non me l’aspettavo assolutamente, e mi ha lasciato senza parole. Ovviamente sono un grande fan di Lynch, e la cosa mi ha fatto davvero piacere. Sì, oltre al cinema, leggo molto e di tutto, con una predilezione per la fiction horror e sci-fi, ma anche tantissimi libri di storia, di musicologia, di antropologia delle religioni, di scienza. Sono veramante un onnivoro, “purtroppo” mi interessa tutto e non sempre trovo il tempo di seguire tutte le mie passioni. Per quanto riguarda i Docker’s Guild, questi interessi si sono realizzati nel tentativo di proporre un progetto multimediale, fin dagli inizi negli anni ’90. Per questo ultimo album per esempio, abbiamo girato ben 12 video in bianco e nero che raccontano l’intera trama. In aggiunta, abbiamo pubblicato uno storybook illustrato che narra in maniera molto più approfondita tutto quello che i testi delle canzoni possono solo abbozzare. Vorrei fare molto di più, dai fumetti a giochi da tavolo, a progetti di animazione. Purtroppo lo stato attuale del business e il fatto che i CD non vendono più e che lo treaming essenzialmente sfrutta il nostro lavoro quasi gratis, non permette più di avere i budget di un tempo per realizzare tutte le idee.

I Cheap Prick: ci voleva un americano per fare un tributo in Italia alla grande band di Rick Nielsen e Robin Zander, i Cheap Trick!!

La tua ambizione musicale più grande?

Più che un’ambizione, è un piccolo rimpianto. Essenzialmente ho ottenuto tutto, nel mio piccolo, dalla mia lunga carriera in musica. Ho suonato con gente famosa e molto più brava di me, pubblicato album di successo, ricevuto recensioni sempre super positive, ho calcato palchi importanti e pian piano seguito e realizzato i miei sogni. Il rimpianto è che con i Biloxi eravamo stati chiamati a suonare nei grandi festival estivi in Europa nel 1994 (Monsters of Rock, ecc), ma il gruppo si sciolse stupidamente prima a causa di futili beghe interne. E’ forse l’unica cosa che non ho mai fatto e mi sarebbe piaciuto.

Nella vita oltre a suonare cosa fai per vivere?

Sono sempre stato relativamente fortunato, e sono sempre riuscito a guadagnare con la musica, bene o male. Credo che la mia versatilità mi abbia permesso di essere presente su vari fronti, da insegnante a musicista, da vocal coach a fonico, da organizzatore di eventi e concorsi a traduttore di testi, ecc. Quando metti tutto insieme, riesci a sopravvivere. Nei momenti più dark, ho sempre complementato le mie entrate con il mio altro mestiere linguistico: traduzioni, corsi di inglese. Ho lavorato tantissimo con le aziende un po’ dappertutto nel mondo. Dieci anni fa ho finalmente aperto la mia struttura di servizi musicali e linguistici, la Black Swan, che è andata molto bene fino al COVID. Da lì in poi, ho messo le altre attività in secondo piano per concentrarmi quasi esclusivamente sulle mie produzioni. In cantiere per quest’anno, un album tributo e Keith Emerson per piano solo, e un album del mio progetto Event Horizon, che conterrà i miei primi brani musicali, che scrissi quando avevo 16 anni al liceo, nel 1983/84.

Grazie del tuo tempo Douglas!!

Grazie mille a voi per avermi ospitato, e un caro saluto a tutti i fans!