Oggi, in un mondo del rock in cui raggiungono le masse solo quelle decine di nomi che hanno ottenuto lo status di icone grazie ai fasti passati oppure che sono supportati da ingenti investimenti delle major, tutto l’infinito substrato di band e artisti che creano e si esibiscono per “pochi” può legittimamente accampare il diritto di essere considerato “da culto”.

Gli australiani The Neptune Power Federation però sono una cult band nell’anima e ho il sospetto che lo sarebbero anche fossimo indietro di 30/40/50 anni.

Nati come una sorta di garage punk stoner band con i rumorosi locali da motociclisti nel mirino e autori di un primo album, “Mano a satano” (2012), che si muove intorno a queste prerogative, hanno effettuato un notevole salto di qualità nel momento in cui tra le loro fila è entrata l’indemoniata sacerdotessa Screaming Loz Sutch che ha permesso al loro sound di finire in un pentolone in cui al rock più primordiale degli esordi si sono andati ad aggiungere elementi psych, glam, soul, per un risultato finale eccitante, energico, lisergico e anche occulto.

Da lì, un quartetto di album splendidi: “Lucifer’s universe” (2015), “Neath a shin ei sun” (2017), “Memoirs of a rat queen” (2019) e “Le demon de l’amour” (2022); escluso l’ultimo, tutti usciti per l’australiana Erotic Volcano Records, ma, fortunatamente, ci ha pensato l’italiana Cruz del Sur Music a fare in modo che fossero stampati e distribuiti anche in Italia e in Europa.

Il loro sound variegato li rende difficilmente categorizzabili e, soprattutto, molto originali; costretto a esprimermi, parlerei di hard psych occulto e sciamanico.

L’attesa di un nuovo lavoro viene intanto mitigata dall’edizione di una raccolta, “Hidden hymns of the underworld”, che contiene i brani, inediti e cover, apparsi su singolo, ma non sugli album.

Al suo interno troviamo, in ordine sparso, i seguenti singoli:

  • Flying incendiary club / I put a spell on you (7”, 2019)
  • Snaggletooth (7”, 2019)
  • Can you dig Europe 2020 (2×7”, 2020)
  • The dawn of the magick children (7”, 2020)
  • Honey bee (7”, 2022)
  • We’re gonna die (7”, 2023)

La scelta delle cover di grandi nomi va un po’ controtendenza con il concetto di “cult” cui mi riferivo all’inizio, ma è coerente per testimoniare il loro suono così eterogeneo, infatti, Motorhead, Rainbow e Queen, seppur molto diversi tra loro hanno sicuramente offerto un contributo all’elaborazione del sound della band, senza contare la sempiterna e pluricoverizzata “I put a spell on you” dell’eroe blues Screamin’ Jay Hawkins.

Da qui si fa presto a fare alcune considerazioni che dubito siano coincidenze: Screaming Loz Sutch, Screamin’ Jay Hawkins e Screaming Lord Sutch, senza contare che quest’ultimo nei suoi Lord Sutch and Heavy Friends ha usufruito del talento di Ritchie Blackmore, monumentale chitarrista di Deep Purple e Rainbow… ecco quindi che tutto torna.

Per quanto riguarda i pezzi propri, si va dal mid tempo “We’re gonna die” col suo ritmo tribale e la cascata di riff e assoli su cui si elevano i toni diabolici della vocalist alla furia rock’n’roll di “Ride the iron space bird” e di “Dawn of the magick children”.

Elementi punk emergono su “Honey bee” dove la verve garage e stoner su tappeto di organo è contaminata da refrain che si ficcano in testa e non ne escono più, ma anche su “98 sins” dove il piede è sempre sull’acceleratore e gli assoli tagliano come lame.

Per ciò che concerne le cover, occorre dire che, pur sembrando un ossimoro, sono eseguite tutte con rispetto e irriverenza a partire dall’accoppiata Motorhead, dove l’energia di “Killed by death” è mantenuta, anche se anticipata da un intro acustico (!), così come quella di “I’ll be yor sister”; la rivisitazione dei Queen poggia su potenza inaudita, tanto da far sembrare “Tie your mother down” come un pezzo di una band di hard rock americano tra fine ‘60 e inizio ‘70, in bilico tra MC5 e Grand Funk, mentre “Son and daughter”, seppur meno irruenta, mantiene l’alto voltaggio e ha un finale pirotecnico; per quanto riguarda i Rainbow, il “maltrattamento” di Kill the king” offre una versione grezza che rivaleggia con l’originale per impatto devastante, mentre l’inno di “Long live rock’n’roll” faccio fatica a pensare che non lo eseguano dal vivo, loro dimensione naturale; infine, con la chiusura di “I put a spell on you” il pathos della voce unito alla qualità della solista rendono onore a un brano immortale.

Bene, l’atmosfera è calda, aspettiamo il prossimo album e, soprattutto, la possibilità di vederli on stage.