I Rival Sons provengono dal Sud della California, più precisamente da Long Beach.
Il loro primo album, “Before the fire”, è del 2009 e il titolo è anche esplicativo del loro corso che ad oggi ha prodotto sette album, senza contare un live uscito solo in vinile e molto difficile da reperire. Fanno parte di quell’immane oceano di band, provenienti da ogni parte del globo, dedite all’hard rock di matrice settantiana, nella fattispecie, all’inizio prevalentemente zeppeliniana.
Per contro, li ho sempre seguiti perché hanno saputo distinguersi dalla massa per immagine, per talento compositivo e per attitudine live. Le loro uscite hanno avuto un crescendo qualitativo che è coinciso con un aumento di elementi soul e gospel all’interno dei loro brani, accanto alla matrice hard blues che li ha sempre contraddistinti. Già nel precedente “Feral root” questa caratteristica era evidente, ma il nuovo album “Darkfighter” ne è la dimostrazione più lampante. La loro formazione è stabile e ha visto solo un cambio del bassista dopo una delle prime uscite. Da sempre Jay Buchanam (voce) e Scott Holiday (chitarre) sono i maggiori compositori del gruppo, ma, nelle ultime produzioni questa predominanza è diventata totale. Da notare che nel nuovo “Darkfighter” è entrato per la prima volta nella formazione ufficiale un tastierista, Todd Ogren.
Pronti via e un’introduzione di organo apre “Mirrors”, un brano di puro hard rock in cui Jay Buchanan dimostra di che pasta è fatto e dove non manca pure un inciso acustico. Anche “Nobody wants to die” è un infuocato brano hard rock caratterizzato da un refrain che si stampa in testa per non uscirne più; splendido l’assolo di Holiday. È con “Bird in the hand” che cominciano a manifestarsi maggiormente elementi soul che si estrinsecano con un groove irresistibile sia dal punto di vista vocale sia da quello strumentale. Su coordinate simili si muove “Bright light” che assume la struttura di semiballad con tanto di chitarre acustiche che arricchiscono il brano di un’aura folk. L’alternarsi tra elettricità ed elementi acustici caratterizza anche “Rapture” che dimostra, se ulteriormente ce ne fosse bisogno, della freschezza compositiva della band, con un Buchanan che sciorina una prestazione vocale da manuale e Holiday che regala un assolo ispirato. La mannaia cala con “Guillotine” e ci colpisce proprio sul collo con il suo riff pesante per poi deliziarci con un intermezzo acustico e un ritornello hard gospel. Un plauso alla sezione ritmica che finora non ho citato, ma che è determinante nell’economia di una band che ha necessità di variare ritmiche con molta frequenza. Il livello continua a rimanere altissimo anche con “Horse’s breath” dove una intro tastieristica ci accompagna in un brano dal ritmo serrato che fa da base all’ennesima prestazione da urlo del vocalist e a un giro di chitarra dai connotati vagamente orientaleggianti, palesando le influenze del dirigibile. Un riff roccioso e pesante apre la conclusiva “Darkside” che poi si placa e lascia spazio a momenti dalle tinte psichedeliche dove Jay Buchanan si esprime con intensità rara e la solista lacera l’anima.
I Rival Sons dimostrano di essere band in costante crescita e di meritare la forte considerazione che hanno guadagnato, soprattutto in Europa… ora scappo e vado a recuperare il biglietto per il loro concerto all’Alcatraz di Milano del 29 ottobre.