Nel vasto e affascinante universo dell’audio engineering, la ricerca del suono ideale – sia in studio che dal vivo – si configura come una sfida ricca di sfumature ed emozioni, capace di coinvolgere musicisti, gestori di locali, label e tecnici del settore. È in questo contesto che si apre il dialogo su un quesito fondamentale: “Ma io, un concerto o un disco, come lo vorrei sentire?”. Una domanda, questa, che invita a riflettere sul rapporto intimo e spesso in bilico tra tecnologia e sentimento, tra fedeltà tecnica e spontaneità espressiva. Ci si chiede frattanto: qual è il mix perfetto degli ingredienti tecnici ed emozionali responsabili di un ascolto di qualità?



Riflettendo sulle epoche sonore, non si può non tornare al caldo abbraccio degli anni ’70 e ’80, quando le registrazioni analogiche, eseguite “in presa diretta”, catturavano l’essenza grezza e autentica del live. In quegli anni, il carattere unico degli hardware vintage (riverberi a piastra che pesavano tonnellate come l’EMT140 o compressori che costavano come un motorino come il Teletronix LA-2A) e degli stack di plexi Marshall donava una botta e una profondità inconfondibili.



Con l’arrivo degli anni ’90, le tecnologie digitali, stanze anecoiche, Alesis Quadraverb e le prime sperimentazioni di mixaggio computerizzato su Amiga hanno inaugurato una nuova era, offrendo una definizione sonora mai vista prima ma allo stesso tempo portando alla luce il delicato compromesso tra la cristallina definizione di quel sound e quel calore inconfondibile che solamente il passato sapeva regalare. Furono altresì gli anni della pietra dello scandalo: l’autotune, il cui utilizzo subì un’impennata con Cher.



Negli anni 2000 e oltre, la produzione discografica moderna ha cercato di coniugare la standardizzazione dei suoni con l’irrinunciabile “essenza metal” che caratterizza molte band, continuando a porre l’accento sul valore insostituibile dell’emozione trasmessa dal suono. Per una certa corrente di pensiero, questo processo di uniformità forzata ha in realtà contribuito a conferire un certo piattume ad una buona fetta di produzioni musicali, specialmente provenienti da oltreoceano, tanto da rendere quasi indistinguibile una band dall’altra, in un mercato discografico che inevitabilmente, lato label, spera al rientro al punto di pareggio in tranquillità
Dopo questa dovuta disamina storica, è l’ora di affrontare il primo spartiacque fondamentale. Come si differenzia filosoficamente il live dallo studio?

Quando ci si sofferma sul confronto tra il lavoro in studio e l’ineffabile esperienza del live, emerge il bonario (e forse neanche troppo) conflitto tra il rigore della post-produzione in studio e l’energia irripetibile di un’esibizione dal vivo. In studio, infatti, ogni dettaglio può essere perfezionato con meticolosa attenzione grazie a una molteplicità di sovraincisioni ed attività di editing che arricchiscono l’insieme dell’ascolto e ne esaltano la complessità e le sfaccettature. D’altro canto, il live regala un’esperienza impareggiabile: il feeling dei musicisti, l’energia del pubblico e l’istinto creativo che trasforma ogni nota in un’espressione autentica e irripetibile ogni volta. Questo dualismo mette in piedi una sfida in cui il tecnico, con le sue “orecchie affinate”, deve saper cogliere e riprodurre il marchio di fabbrica originale di ogni strumento, dalla chitarra al pedale, rendendo ogni esibizione un omaggio alla spontaneità dell’istante e del lavoro arduo dell’artista dietro le quinte e sul palco. O meglio, dovrebbe. Perché nell’immenso e variopinto panorama del mondo della musica live, specie nel nostro Paese, non è sempre così scontato che questa cosa avvenga. Vuoi per una difficoltà a potersi formare come si dovrebbe o come si vorrebbe, un po’ per essere sbrigativi e “non farsi rompere le balle dal proprietario del locale” o per autoprotezione e non farsi coinvolgere eccessivamente da musicisti eccessivamente zelanti, un po’ per mancanza di budget, un po’ per retorica del tipo “noi siamo grezzi volutamente perché è la nostra filosofia”.
Il live resta comunque inarrivabile. Come recentemente sottolineato da Enrico Ruggeri in uno dei suoi video, la performance ideale si esegue con musicisti tradizionali – chitarra, basso, tastiere e batteria – senza l’ausilio di sequenze o artifici elettronici. In tale contesto, gli amplificatori non sono meri strumenti di riproduzione, ma autentici estensori dell’espressività umana, capaci di tradurre in onde sonore le emozioni e gli stati d’animo di ogni serata. Eppure, quando l’obiettivo diventa quello di trasporre brani registrati dal vivo in un formato discografico, le esigenze tecniche cambiano sensibilmente: è necessario ricorrere a impianti PA di derivazione HI-FI, in grado di rappresentare ogni sovraincisione e sfumatura con una fedeltà che i tradizionali sistemi PA, calibrati sulla compressione dei file digitali odierni e per un uso più generico, non possono sempre garantire. Questo, ovviamente, a patto che l’ambiente dove si terrà il concerto sia stato adeguatamente trattato acusticamente, l’impianto tarato a dovere e soprattutto i satelliti abbiano il giusto delay calcolato sulla base della distanza tra essi e la fonte sonora.

Il mondo del rock e del metal, poi, introduce ulteriori complicazioni. Le esibizioni metal richiedono impianti in grado di gestire carichi imponenti sui subwoofer, per creare quel “muro di suono” che diventa il marchio distintivo del genere. In studio, mentre si possono sovraincidere numerose tracce di chitarra, dal vivo il tecnico deve trovare soluzioni creative e tecniche, magari ricorrendo a sequenze o lavorando con l’eq sui singoli strumenti in uscita sull’impianto, per evitare che un eccesso di basse frequenze alla fonte conduca a un turbinio di rumore sul palco che renderebbe l’esecuzione dei musicisti impossibile e trasformerebbe le prime file in Super Sayan.
Un insegnamento prezioso si ricava dalla storia delle registrazioni: gli anni ’60 e ’70 ci hanno donato esempi in cui la registrazione “in presa diretta” permetteva di catturare quella coesione e quel feeling collettivo in cui i musicisti suonavano insieme nel vero senso della parola, rendendo l’esperienza di ascolto incredibilmente autentica. Al contrario, nel corso del tempo e soprattutto negli ultimi dieci anni, vi è stata in parte l’eccessiva stratificazione di tracce e sovraincisioni. Questa, se non sapientemente gestita, rischia di appiattire l’emozione, relegando il live a un mero gioco di tecnologie che, pur integrando sequenze e orchestrazioni, non riescono a replicare la magia dell’improvvisazione e della dinamica.
Ma… questo mix perfetto allora come si ottiene?
Si evince che la resa sonora, sia quella curata nei minimi dettagli in studio, sia quella incantata e inaspettata di un live, si potrebbe rappresentare come un’arte complessa in cui la tecnica e il sentimento si intrecciano in un dialogo continuo. La vera bellezza risiede proprio in questa tensione: tra la precisione degli strumenti e la libertà dell’espressione, tra il rigore della tecnologia e la spontaneità dell’istante. Forse, come suggerisce l’opinione di chi sa ascoltare veramente, la risposta sta nel fatto che suonare bene significa sentire tutto, nella giusta misura, senza che nulla disturbi l’armonia voluta dalla band.
La riflessione si dipana dunque su una sfida senza risposta definitiva: come bilanciare l’amore per la tradizione con l’inesorabile spinta verso l’innovazione? Forse la risposta risiede nell’atteggiamento di chi, suonando uno strumento, diventa un tutt’uno con la musica, affidandosi nel contempo a professionisti che sanno interpretare e valorizzare ogni sfumatura del suono. O, addirittura, diventano poliedrici in entrambi i campi e diventano più completi. La vera bellezza, dunque, sta nella continua ricerca di quell’armonia perfetta che, senza imporsi come verità assoluta, lascia spazio a interpretazioni personali e al dialogo costruttivo tra tutti gli operatori del settore.
Alla luce di queste riflessioni, la domanda iniziale assume un nuovo significato: “Ma io, come lo vorrei sentire?”. Vorrei che per voi tutti questa domanda e questo articolo fossero un invito a non accontentarsi, a sperimentare e a lasciarsi guidare dalla passione, affinché il suono, sia esso dal vivo o in studio, diventi il veicolo di emozioni autentiche e irripetibili e non la solita crociata da stadio tra amanti dei potenziometri e dei fader.