Non è affatto semplice scrivere due righe sul debutto dei Sadist, senza scadere nell’ovvietà per quello che è il doveroso tributo ad una delle opere più importanti nella storia del death metal e della scena estrema in generale, essendo trascorsi trent’anni di vita e tante pagine scritte.

Eppure, anche nel 2024 c’è ancora bisogno di rammentare agli appassionati chi abbia contribuito a scrivere la storia del genere.

Scendiamo negli inferi del 1993: chi ha vissuto i primi anni Novanta sa quanto sia stato importante quel periodo, non solo per il metal estremo ma per il mondo del rock tutto.

Sotto la bandiera del crossover si avviò un ribollire di generi e sottogeneri che progredirono e diedero nuova vita alla nostra musica preferita, in barba a chi batteva la bandiera dell’immobilismo e che tutt’ora guarda a quegli anni come la grandine sul loro orticello.

Nel death metal, genere conservatore fino al midollo, quelli furono gli anni del rinnovamento, il periodo d’oro come ancora oggi viene etichettato grazie alle varie scene che emersero a partire dal Nord Europa, passando per i Paesi Bassi, la Gran Bretagna fino agli States.

In Italia si continuava a fare i conti con una scena che pure a livello underground andava a braccetto con problemi che, purtroppo ancora oggi sono ben visibili, sebbene molte cose siano fortunatamente mutate in meglio.

In maniera tanto inaspettata quanto clamorosa, arrivò proprio in quel 1993, anche per il metal estremo tricolore il momento di gloria (almeno fuori dai patri confini) con l’uscita di “Above The Light” dei Sadist, esordio di tre ragazzi genovesi che, guidati dal polistrumentista Tommy Talamanca, diedero alle stampe un album incredibile per i tempi, dal sound originalissimo in quanto riusciva ad integrare uno strumento come le tastiere, fino ad allora pressoché tabù per il genere salvo rare eccezioni (rinvenibili soprattutto nei Nocturnus del formidabile The Key).

Prodotto da Alberto Penzin, a sua volta nome di spicco del metal estremo con i siciliani Schizo, “Above The Light” altro non era se non un monumento sonoro di inestimabile valore, dove il death metal diventava il mezzo per proporre musica progressiva, oscura certo (al sottoscritto diversi passaggi ricordano i Goblin), violenta ma assolutamente senza confini, sperimentale ed emozionante come poche opere di genere ancora oggi.

D’altronde, bastava ascoltate il rumore del mare sull’arenile e dei gabbiani che ci avvertivano che qualcosa di mai sentito prima si stava per materializzare, prima d’essere travolti da uno tsunami di note, in un duetto senza soluzione di continuità tra le tastiere e la sei corde, tutte ad opera di Tommy, già all’epoca musicista di valore assoluto.

Peso, altra leggenda del metal estremo tricolore con i Necrodeath, alla batteria e Andy, basso e voce, completavano la line up di questo capolavoro che racchiudeva nell’interezza della sua track list altrettanti buoni motivi per conseguire l’immortalità.

Sometimes they come back…