Serata memorabile al Palladium di New York, con i Winger in formazione classica e in apertura un grande John Corabi!
Ho sempre creduto che i Winger siano uno dei casi più ingiusti della storia del rock. Pensate alla loro storia: un gruppo di grandi musicisti, che arriva in classifica alla fine degli anni ottanta e il cui cantante diviene un sex symbol a là George Michael, di punto in bianco viene spazzato via dal grunge e ucciso da un cartone animato. Già, perché da quando “Beavis and Buttehad” cominciarono a considerare i Winger un gruppo di sfigati, per il gruppo fu l’inizio di una caduta verticale. Derisi e umiliati, ci si mise poi pure Lars Ulrich a peggiorare la situazione. Vi ricordate il celeberrimo video di “Nothing Else Matters”? Ebbe un successo mondiale. Peccato che in una scena il batterista dei Metallica prenda a freccette il poster dei Winger. Fu la fine. Il gruppo non è mai più tornato ai fasti di un tempo ma ciò non significa che non abbiano continuato a fare buona musica. E in questo 2023 i Winger sono tornati in tour con nella formazione originale, comprendente, oltre che il cantante e bassista Kip Winger e il chitarrista John Roth entrato nel 1993, Rod Morgenstein alla batteria, Reb Beach alla chitarra, e il redivivo Paul Taylor alle tastiere e seconda chitarra. E vi sembra poco?
A scaldare il pubblico di questa sera di pensa John Corabi, altro grande musicista che ha raccolto troppo poco rispetto al suo talento (ricordate gli Union o il suo disco con i Motley Crüe?). Il rocker americano si presenta sul palco per suonare quaranta minuti per sola chitarra e voce. John non è nuovo a questa dimensione. Basta che vi riascoltiate l’album unplugged del 2012. Un concerto intimista che mette ancora più in luce il carisma di Corabi e la sua voce “che pò esse fero e pò esse piuma”. E che si chiude con le atmosfere di “Man in the Moon”, un vero tuffo nelle paludi intorno a New Orleans. Il tempo di mettere via la chitarra e sul palco arrivano i Winger. Aprono con la ruffiana “Can’t Get Enough”, tratta da quel capolavoro del 1990 che si chiama “In the Heart of the Young”. Il gruppo non ha perso neanche un minimo della sua forza: ritmiche da stadio, cori trascinanti, stacchi chirurgici, assoli tecnici ma sempre attenti alle melodie. Grande energia sul palco dunque. Peccato che il locale abbia scelto di far sedere il pubblico, neanche fossimo a un concerto di musica barocca. Capisco che l’età media fosse ben oltre i cinquanta ma, che diamine, siamo sempre a un concerto rock! Si prosegue con “Seventeen”, dove tanto semplice e diretto è il ritornello quanto complessa e sincopata è la ritmica. Kip, sempre sicuro dietro al suo basso, non esita a coinvolgere i fans e, grazie a dio, qualcuno alza le chiappe per rendere giustizia al rock. Con “Down Incognito” si riconosce il valore di “Pull”, un grande album, coerente e innovativo, che ha avuto il solo demerito di uscire in piena tempesta grunge. Le tastiere di Paul Taylor introducono la romantica “Miles Away”, che rimane sempre un bel pezzo nonostante sia chiaramente figlio di un’altra epoca. Con “Rainbow in the Rose” si arriva a uno dei picchi del concerto. Qui emerge l’anima più progressive dei Winger, grazie soprattutto al grande lavoro dietro le pelli di Rod Morgenstein (che è pur sempre l’ex batterista dei Dixie Dregs e docente al Berkley College of Music di Boston!) e le tessiture di chitarra di Reb Beach, sulla scia di Steve Vai ma con una sua personalità.
I Winger sono anche uno dei rari esempi di gruppi hard rock in cui il tastierista si sente! E non potrebbe essere altrimenti perché le tastiere nei Winger sono importanti quanto gli altri strumenti e hanno sempre contribuito a rendere unico il suono della band. Paul Taylor dunque non rimane a fare la statuina dietro al palco ma emerge con grande classe, abbracciando a tratti anche la chitarra ritmica. Su “Easy Come Easy Go” Kip Winger interrompe il concerto lamentandosi con il tecnico per le troppe luci puntate contro di lui. Ma lo fa sempre con il sorriso sulle labbra e senza strafottenza, in pieno stile Winger. Si chiude con “Headed for a Heartbreak” e “Madeleine”, il primo grande successo dei Winger tratto dall’omonimo album del 1988. Se vi capita, andate a vederli. Se non li conoscete, sarà una buona occasione per conoscere un gruppo dal grande valore artistico ingiustamente punito dal destino. Se invece siete già dei loro fan, i Winger dal vivo, anche trent’anni dopo il loro periodo d’oro, non vi deluderanno.