I primi sette secondi dell’esordio di Jeff Buckley su supporto discografico consistono in un sussurro. 23 novembre 1993. Trent’anni fa esatti, il cantante introduceva la sua Mojo Pin (scritta però a quattro mani con Gary Lucas) ad un fitto pubblico stipato nel minuscolo café irlandese dell’East Side di New York con la frase “This is a story about a dream”. È questo l’incipit dell’EP Live at Sin-é, registrato nell’estate del 1993, dopo un lungo corteggiamento dei discografici, che da un po’ di tempo lasciavano parcheggiate le loro limousine in strada per ammirare e mettere sotto contratto la futura promessa del rock (la spunterà la Columbia). Jeff era diventato un habituéé del locale e in quegli anni le sue intense esibizioni si alternavano a quelle di Marianne Faithfull e Sinead O’Connor.
Sembra passato un secolo da quell’epoca in cui la musica era ancora analogica e i dischi si vendevano esclusivamente in formato fisico, ma è soprattutto l’esperienza terrena e quella musicale del giovane Buckley che appaiono proprio come un sogno. I suoi live erano performance fatte di sudore, palpitazioni e lacrime, ma anche di una certa ironia.
Live at Sin-é ne era solo un assaggio, un antipasto squisito ma veloce a quella primissima e raffinata prima portata intitolata Grace. Non ne sarebbero seguite altre, durante la sua esistenza troppo breve.
Quattro intensi brani per sola chitarra e voce. Alla struggente ballata tossica in cui il cantante sfodera già il meglio delle proprie corde vocali (dimostrando di avere ereditato la meravigliosa impronta genetica del padre Tim), segue una delle sue composizioni più aggressive e arrabbiate di sempre, Eternal Life. Pesantemente influenzata dalla musica dei Led Zeppelin, è un’epica cavalcata di chitarre e batteria con un testo vagamente criptico che, nonostante fosse ispirato a vicende politiche e problematiche razziali, non rinunciava ad un appeal romantico. La ricanterà velocizzata e molto più arrabbiato (Road Version) in chiave grunge in una versione b-side per l’omonimo singolo australiano.
E poi due splendide cover, che più lontane tra loro non potevano essere: la dolce e zuccherosa ballata Je N’en Connais Pas La Fin, direttamente dal repertorio risalente a oltre cinquant’anni prima di Edith Piaf, e una stravolta e ruvida versione di The Way Young Lovers Do di Van Morrison.
Una tracklist minima ma che un decennio più tardi sarebbe stata espansa, e non di poco, nella Legacy Edition, uno delle tante (ma anche tra le più interessanti) uscite postume. Per chi scrive e per i suoi contemporanei le ‘incisioni complete’ del Live at Sin-é sarebbero rimaste all’ombra (perché inevitabilmente ascoltate molto tempo dopo) di Grace, un vero gioiello e un capolavoro discografico calibratissimo, rimasto cristallizzato nel tempo e nella storia del rock recente come l’immagine dello stesso cantante, per sempre giovane e immortale. Amarissime e magre consolazioni.
Ricordare questa uscita e recuperarne la versione estesa ci aiuta a scoprire l’estrema versatilità dell’artista, in grado di attraversare i generi più differenti, passando dal punk al rythm and blues, esprimersi nei migliori registri del rock e poi di punto in bianco improvvisarsi come una credibile chanteuse nello stile di Edith Piaf o un jazz singer, ricantando i classici di Nina Simone e Billie Holiday. E ancora immergersi negli stilemi della musica qawwali (la musica sacra dei sufi Cishtiyya del sub continente indiano, nacque nella zona dell’attuale Afghanistan. La sua origine risale a più di 700 anni fa ed è ancora viva e suonata, nda) di Nusrat Fateh Ali Khan oppure recuperare alcuni classici dei britannici The Smiths. Senza naturalmente dimenticare il rock più classico, quello di Leonard Cohen e Bob Dylan. All’epoca nessuno gli resistette, grandi leoni come Plant e Page tessevano ripetutamente le sue lodi, Bowie in un’intervista dichiarava che non avrebbe rinunciato al suo LP d’esordio su un’isola deserta e McCartney posò assieme a lui davanti all’obiettivo della moglie Linda. La sua straordinarietà seminò nelle menti e nelle corde vocali di uno stuolo di futuri colleghi, non ultimi i Radiohead e Anna Calvi. Oltre che lasciare ispirazioni compositive in amici come Chris Cornell ed Elisabeth Frazer.
Non c’è un filo di colore nel booklet originario di Live at Sin-é. Se non nel segno ocra lasciato dal fondo di un bicchiere su una tovaglietta (copertina geniale). Lo stile è minimalista, le foto di Merri Cyr – che accompagnarono generosamente e talvolta in modo sontuoso i suoi primi passi discografici – qui sono rigorosamente in bianco e nero. È la forza della monocromia del passato, come la tensione delle corde di una Telecaster e la potenza del riverbero di una voce senza tempo.