É al terzo brano “Fever”, che le cose mi divengono chiare. É lì che gli oltre 700mila ascoltatori mensili (il riferimento é al solo Spotify) di Aldous Harding acquisiscono un peso qualitativo. E non avviene solo perché scopro che il batterista suona pure la tromba, bensí perché quella tromba dà una profondità maggiore all’indie folk che fino a quel momento era sembrato solo carino, ma innocuo.
Aldous Harding non é la nuova Joan Baez, ma nemmeno l’ultima arrivata. Le radici folk ci sono eccome in quest’artista neozelandese. Ma c’è anche una certa teatralità, che inizialmente avevo scambiato per seriosità. Invece le splendide luci di questo teatro, il Barbican Hall, al piano meno uno di un centro multifunzionale spettacolare mettono in risalto tutta la sicurezza con cui lei, e la sua band, affrontano un sold out evidentemente meritato.
Perché negli arpeggi della successiva “Treasure”, così come nei tappetini di tastiera ben congeniati, si nasconde più della suonata tra amici. E più anche dei video professionali che é possibile vedere su YouTube dell’artista. Perché in live tutto diviene vivo, comprese le corde di nylon della chitarra classica, imbracciata dopo il primo pezzo da Aldous Harding.
Una esibizione in punta di dita, con un basso leggerissimo e la sola cantante al centro della scena. Circondata dal rispetto per la musica, incarnificato dai musicisti, sempre silenti quando necessario, e attivi con varie sfumature durante i vari brani. Un approccio che non vedo più spesso, quantomeno in Italia.
Meno lusinghiero posso essere sull’introduzione, scarna e fondamentalmente sgraziata di Alice Low. Scarna perché il nostro ha utilizzato delle basi. Svilente, sinceramente, sia rispetto alla performance composita della Harding che in termini assoluti. Un’occasione persa, anche perché il pubblico, seppur non ancora numeroso come per la Harding, era più che presente. Meglio quando quest’artista fa i cori per la Harding su “Leathery Whip”, ultimo pezzo proposto dall’headliner prima di due applauditi bis.