Jinjer e P.O.D.: una strana coppia. Due storie diverse, due percorsi diametralmente opposti, un tour insieme che li accompagnerà per mezza America per gli ultimi tre mesi del 2022.

I P.O.D. li conosciamo sin dalla fine degli Anni Novanta: vengono da San Diego ma mica dalle spiagge assolate. Vengono da Southtown, quartiere difficile della metropoli californiana. Hanno conosciuto la dura legge della strada e di questo parla la loro musica. Storie difficili, tragedie, errori fatali che però non vengono condannati ma compresi, in piena sintonia con l’insegnamento cristiano. Dal vivo i P.O.D. cercano continuamente il contatto con il pubblico perché neppure il successo dei loro primi dischi li ha allontanati dalle loro radici. E’ davvero uno spettacolo vedere il cantante, Sonny Sandoval scendere in mezzo al pubblico e cantare “Southtown” saltando in mezzo alla gente e nuotando sopra le loro teste per tornare sul palco. E che dire dell’inizio del concerto, che si apre con la trascinante “Boom”, un vero inno della generazione anni Duemila? I P.O.D. ci mettono poco a scaldare il pubblico con il loro mix di metal, hip pop, reggae e hardcore. “Rock the Party (Off the Hook)” e “Soundboy Killa” fanno saltare tutto l’Hammerstein Ballroom, come se fossimo nel 2000 in piena esplosione nu metal.

Sonny Sandoval dei P.O.D.: energia e spiritualità!!

Ma i P.O.D, sono anche spiritualità e fede. Non è raro vedere Sandoval alzare lo sguardo verso il cielo durante il concerto e rivolgere un pensiero o una parola a Dio. Dal vivo “Youth Of a Nation” è una preghiera per i ragazzi innocenti uccisi nella Columbine School nel 1999 e nelle tante altre stragi dovute alle troppe armi che girano nelle scuole d’America. “Alive” è un inno alla vita e un messaggio positivo con cui la band californiana si congeda dal pubblico. Forse per i P.O.D. il momento migliore è già passato. Ma loro sono rimasti veri, autentici, sinceri e questa è la forza che li ha portati a fare musica fino ad oggi.

  • Tatiana Shmailyuk e Eugene Abdukhanov, il cuore metallico dei Jinjer!!

Con i Jinjer si cambia decisamente pagina. Li definiscono progressive groove metal e l’etichetta non è sbagliata ma non riesce a cogliere la vera essenza della band. Ascoltare i Jinjer dal vivo, infatti, è come passare di continuo da una dimensione terrestre a una quarta dimensione. Vi sono momenti in cui si perde l’equilibrio, il punto di riferimento, la base di appoggio e si entra in uno spazio nuovo dove le parallele convergono e i numeri primi diventano divisibili per altri numeri. In alcuni passaggi i riff degli ucraini sfidano le leggi della matematica: non riesci più a tenere il tempo, vieni sbalzato fuori strada ma capisci che, in realtà, tutto continua ad avere una logica. Sei tu che non la segui più. Ma proprio mentre annaspi e cerchi di riprendere l’orientamento, la musica rallenta, si affacciano le melodie e tu riprendi a battere il piede, contento di aver ritrovato il centro di gravità. È una sensazione che si avverte sin dalle prime battute del concerto. “Sit Stay Roll Over”  è aggressione allo stato puro e “Teacher teacher” non è da meno con il suo impossibile mix fra parti vocali quasi rappate e chitarre mitragliate a velocità disumane. Non c’è dubbio che i Jinjer siano quattro musicisti eccezionali, nonostante la loro giovane età: mai una sbavatura, stacchi perfetti, ritmiche originali, non si ha mai l’impressione che i nostri stiano scopiazzando da più illustri colleghi. I Jinjer seguono la propria via, anche a costo di risultare ostici. Al microfono hanno poi una cantante che è ben oltre la media. Ricordo la prima volta che ascoltai un brano dei Jinjer: non riuscivo a credere che la voce fosse quella di una donna finché non guardai il video di “Pisces”. Ho poi avuto il dubbio fosse tutto merito degli effetti del microfono ma questa sera ho avuto la riprova che quella voce cosi rauca viene proprio dalle sue corde vocali. Sia ben chiaro che Tatiana Shmayluk non sa soltanto gridare: nelle parti pulite è forse ancora più brava perché riesce a piegare la voce a intenzioni blues, pop e persino reggae.

Se ne ha uno splendido esempio in “Judgement and Punishment”, che anche dal vivo risulta uno dei pezzi meglio riusciti del repertorio del gruppo ucraino. Rimane poi un mistero come la Shmayluk sia riuscita a trovare delle linee vocali su una base di riff contorti e tempi dispari, come quelli di “Dead Hands Feel No Pain”. “Who’s Gonna Be The One”, “Sleep Of The Righteous” e “Perennial” fanno crescere la tensione fino a portare a “Pisces”, il vero gioiello della band. Dal vivo non perde nulla del suo pathos in stile Opeth, grazie soprattutto alla versatilità della voce della Shmayluk. Rappresenta un po’ il meglio dei Jinjer e forse anche il futuro. Giunti al quarto disco, la band ucraina non ha infatti ancora fatto il grande salto. L’ultimo “Wallflowers” risale al 2021: è un bel disco ma l’impressione è che la band sia capace di fare ben altro. “Pisces” è il futuro possibile: se la band riuscirà a scrivere brani più organici, con qualche asperità in meno e qualche melodia in più, amalgamando le svariate influenze che per ora affiorano solo qua e là, potrà forse ambire a raggiungere la piena maturità.