Stasera ce n’è per tutti i gusti: death, black, grind, heavy metal…è una roulette russa di sonorità estreme da cui le orecchie non usciranno comunque indenni. Non c’è luogo più adatto del Terminal 5 per ospitare questa orgia sonora: ex night club chiuso dalla DEA all’inizio degli anni Duemila per problemi di droga, il locale è stato poi rinnovato e riaperto qualche anno più tardi ma mantiene un non so che di equivoco, come se quelle mura non avessero ancora finito di raccontare le turpi storie di cui sono state testimoni. La via dove si trova il Terminal 5 è una strada secondaria e poco illuminata di Manhattan: pochi sono i passanti perché intorno ci sono solo depositi e concessionari di auto e la sera non c’è motivo di venire da queste parti. Le uniche persone che si vedono passare hanno la maglietta scura e convergono tutte nello stesso posto. Il Terminal 5? No, il baracchino di cibo messicano davanti all’ingresso. Appena arriva più gente, il gestore del baracchino comincia a sparare dalle casse un disco dei Cannibal Corpse, che violenta il silenzio della strada (per quanto a Manhattan il silenzio vero non esista …). Non male come strategia di vendita. Empanadas e death metal. Comunque ha funzionato. I panini escono sempre più copiosi e fiotti di salse dai mille colori vengono espettorati sempre più velocemente dai tubetti.  Avendo già mangiato, evito questa ordalia culinaria ed entro in fretta e furia dentro il locale dove i Napalm Death stanno per iniziare.

Questa è la quarta volta che li vedo a New York ma la carica e l’intensità è sempre la stessa. Non c’è un cedimento nella voce di Barney Greenway e ancora mi domando come faccia dopo tutti questi anni di musica ad avere una voce cosi piena. Anche la forma fisica è ottima e i problemi al piede di un paio di anni fa sembrano ormai passati. Barney è un ossesso: scuote la testa e si dimena, accompagnato dal fido Shane Embury al basso e dal metronomo umano Danny Herrera. Il chitarrista John Cooke continua ad essere un membro temporaneo della band ma sono ormai anni che suona con la band e rappresenta una certezza. Si comincia con “Silence is Deafening” e “Fuck the Factoid”. La prima parte del concerto si concentra principalmente sui brani più recenti, fra i quali l’enigmatica “Throes of Joy in the Jaws of Defeatism”, mentre la seconda parte viene dedicata ai classici come “the Kill”, “Scum”, la “You Suffer” da record dei primati e l’immancabile cover di “Nazi Punks Fuck Off” dei Dead Kennedys, per poi chiudere con “Siege of Power”.

Tempo un’ora di concerto ed è ora di passare a sonorità più oscure e inquietanti con i Behemoth. E non c’è inizio più nero di “Ora Pro Nobis Lucifer” con la quale i cinque polacchi fanno subito sfoggio del loro sound compatto e profondo per poi passare ai tetri paesaggi di “Wolves ov Siberia”. Diversamente da molti gruppi black metal, i Behemoth cercano il contatto con il pubblico, anziché suonare per conto proprio. Il cantante Nergal domina il palco e incita la gente a cantare i suoi macabri versi. Anche il bassista Tomas Wroblewsky e il chitarrista Patrik Sztyber non sono da meno e le prime file contraccambiano con un headbanging forsennato. “Ov fire and Void” riesce nell’intento di riprodurre dal vivo le inquietanti atmosfere del pezzo in studio mentre “Evoe” è una vera e propria discesa negli inferi. “Christians to the Lions” è carneficina che non fa prigionieri ed è seguita dalla hit (si fa per dire…) “Bartzabel”, un’invocazione maligna che avvolge ben presto il Terminal 5 con un nero sudario. Di tutti questi pezzi – per inciso – andrebbero visti e riscoperti anche i video, che potete tranquillamente trovare su you tube. Sono una vera eccellenza della band, sia per il livello qualitativo delle immagini sia per i paesaggi che riescono a ricreare. Insomma, c’è un aspetto visuale dei Behemoth che va tenuto ben presente perché fa parte integrante della musica della band. Fra una canzone e l’altra Nergal rivolge un accorato messaggio di solidarietà al popolo ucraino contro l’invasione russa e il pubblico approva senza riserve. Dopodiché si prosegue con le sfuriate di “Conquer all” (ovviamente nessun riferimento all’attualità appena menzionata…) e le atmosfere apocalittiche di “Ov my Herculean Exile”, il singolo tratto dal nuovo lavoro “Opus Contra Naturam”, e la martellante “Decade of Therion”. Dopo “Chant of Ezkaton 2000” si chiude con la splendida “O Father O Satan O Sun”, l’agghiacciante invocazione demoniaca che, anche dal vivo, fa correre più di qualche brivido lungo la schiena.

Qualche spiraglio di luce lo offrono gli Arch Enemy, capitanati dal leggendario ex chitarrista dei Carcass, Michael Amott. Si comincia con le tinte forti di “Deceiver, Deceiver” e “the World is Yours”, due pezzi che lasciano ben poco spazio ai compromessi ma che, laddove meno te lo aspetti, si aprono a squarci melodici e cavalcate in stile Helloween. E’ il marchio di fabbrica degli Arch Enemy, ben riconoscibile anche nelle successive “Ravenous” e “War Eternal”. La cantante Alissa White Gutz tiene bene il palco e catalizza l’attenzione. A mio avviso però, non eguaglia la sua predecessora Angela Gossow, dotata di maggior presenza sul palco e di una voce più potente. Si continua con “War Eternal”, “My Apocalypse” e la trascinante “the Eagle Flies alone”, uno dei brani migliori della band, a giudizio di scrive. E non credo di essere il solo a pensarla cosi, a giudicare dalla gente che canta a squarciagola intorno a me. Michael Amott fa coppia perfetta con Jeff Loomis, che alcuni di voi ricorderanno nei Nevermore. Insieme sono un insieme bilanciato di cattiveria e melodia, sostenuti dal basso perforante del mitico Sharlee D’Angelo, una delle colonne portanti dei migliori Mercyful Fate e King Diamond. La cattiva “Under Black Flags we March” fa da contraltare alle chitarre sognanti e malinconiche di “Snow bound”. L’inno metallico “Nemesis” e la martellante “Field of Desolation” (tratta dall’album d’esordio Black Earth, anno domini 1996) chiudono una serata dedicata al metal estremo in tutte le sue sfaccettature.

Mancava il death metal classico? Quello lo suonava il baracchino messicano.

PS. Per un problema tecnico non riusciamo a pubblicare le nostre foto, scattate dall’autore del testo. Quella che vedete è di Masen Smith del sito newnoisemagazine.com, che sostituirono appena risolto il problema tecnico.