Il concerto di questa sera all’Irving Plaza è un po’ come New York: ci trovi di tutto e ala gente piace proprio per questo. Dal blues all’hard rock, passando per il metal, l’industrial e il death, è una serata per tutti i gusti e per tutti i timpani.

Aprono le danze i Prong, band newyorchese che non ha mai veramente sfondato ma è stata fra i principali ispiratori del suono tecnologico degli anni Novanta. Il cantante/chitarrista Tommy Victor ride beffardo mentre sciorina i riff di “Broken piece” e “Snap your fingers, snap your neck”. Il suono della sua chitarra è chirurgico e non potrebbe essere altrimenti per uno che negli Anni ottanta faceva l’ingegnere del suono al mitico locale CGBG, dove mossero i primi passi Ramones, Talking Heads, Television e altri mostri sacri del rock. Poi arriva “Beg to Differ””, la mini hit che ha definitivamente lanciato i Prong, e ti rendi conto che si tratta di un pezzo ancora attuale, nonostante sia stato scritto più di trent’anni fa. L’esibizione dei Prong dura solo quaranta minuti ma sono abbastanza per scaldare gli animi dei metal kids.

Salgono sul palco gli Obituary, che rivedo a due anni dalla loro esibizione al Playstation Theater assieme agli Hatebreed. Passano gli anni ma John Tardy mantiene intatto il suo timbro inquietante, spalleggiato dal fratello Donald alla batteria e dal fido Trevor Peres alla chitarra. “Chopped in half” è un film dell’orrore condensato in quattro minuti di sonorità malate e sanguinolente. “Redneck stomp” è un inno da stadio interamente popolato di zombie. E che dire di “Straight to Hell”, un pezzo che, dal vivo ancor più che su disco, ti trascina inesorabilmente verso l’inferno? Se vi capita di vedere gli Obituary dal vivo, segnatevi questo pezzo. Dopo la parte iniziale, si disfa come un corpo in decomposizione in ritmiche sempre più lente fino ad agonizzare nella sua parte finale: e i rantoli di John Tardy rendono il tutto ancora più agghiacciante. E per finire non può mancare la classica “Slowly we rot”, che rimanda agli inizi di carriera della band floridiana e funge da necrologio all’esibizione degli Obituary.

Zakk Wylde seduto alle tastiere, un’immagine rara, ma emozionante, durante i suoi concerti!

Uscita di scena la band, il palco viene oscurato da una tenda gigantesca che viene tolta quando i Black Label Society salgono sul palco. Ed è un momento a dir poco esplosivo. Zakk Wylde si presenta con un giubbotto di jeans, muscoli ben in vista e un kilt da highlander. Al suo ingresso due cannoni sparano vampate di fumo mentre dagli amplificatori esce un suono devastante, che gareggia con i Manowar, quanto a decibel. “Bleed for me” è il pezzo di apertura e suona come una dichiarazione di guerra. Zakk scuote furiosamente a destra e a sinistra la lunga zazzera mentre imbraccia la chitarra quasi fosse un mitragliatore. Durante l’assolo, sale su una sorta di pedana fino ad alzare la chitarra in aria come il martello del dio Thor. È una scena che si ripeterà spesso durante il concerto e che rappresenta al meglio il carattere muscolare del chitarrista originario del New Jersey. La band che lo accompagna è la stessa dal 2014 ed è simile a un carro armato ben rodato: al basso John De Siervo (presente anche nel primo gruppo fondato da Zakk Wylde, ovvero i Pride and Glory), alla batteria Jeff Fabb (ex membro degli In This Moment e per un breve periodo dei Filter) e alla chitarra Dario Lorina (ex Lizzy Borden). Quest’ultimo, ben lungi dall’essere solo un chitarrista ritmico, gode di più spazio che in passato e avrà modo di esibirsi in una sorta di duello chitarristico con Zakk durante “Suicide Messiah”. Un vero spettacolo vedere entrambi suonare la chitarra dietro la schiena e fare un assolo all’unisono! Il repertorio è basato sui classici della band tranne “Set you Free,” che è tratto da “Doom Crew Inc”, il nuovo disco Black Label Society che sarebbe stato pubblicato da lì a venti giorni. “Demise of Sanity”, “Overlord”, “The Blessed Hellride” non fanno prigionieri ma dopo l’assalto sonoro arriva il momento di riflessione. Zakk si mette al pianoforte e si abbandona alle note malinconiche di “Spoke in the Wheel” e “In This River”, mentre dietro di lui viene srotolato un telo con l’immagine dell’indimenticato chitarrista dei Pantera, Dimebag Darrell. Con “Trampled Down Below” e “Destruction Overdrive” si ritorna verso sonorità hard rock riviste in salsa metal per poi chiudere con la gloriosa “Stillborn”, tratta dall’album “The Blessed Hellrider”.

Per quanto i Black Label Society siano una band a tutti gli effetti e ormai con una storia ventennale, è innegabile Zakk Wylde sia il perno attorno al quale ruota il resto del gruppo. Zakk è rimasto il chitarrista che conosciamo tutti. Decisamente sopra le righe, catalizza l’attenzione con la sua forte presenza ma anche con il suo stile chitarristico: uno stile muscolare che non rinuncia al tempo stesso alla passionalità e al feeling blues. Non è probabilmente il modello di chitarrista in voga oggi ma resta a mio avviso uno dei migliori musicisti in circolazione, come lo sono stati molti di quelli che sono passati per la corte di Ozzy Osbourne a partire da Randy Rhoads.